“La Traviata” all’Opéra Bastille di Parigi (cast alternativo)

Parigi, Opéra Bastille, Stagione lirica 2017/18
LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal romanzo “La dame aux camélias” di Alexandre Dumas.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry MARINA REBEKA
Flora Bervoix VIRGINIE VERREZ
Annina ISABELLE DRUET
Alfredo Germont CHARLES CASTRONOVO
Giorgio Germont PLÁCIDO DOMINGO
Gastone JULIEN DRAN
Barone Douphol PHILIPPE ROUILLON
Marchese d’Obigny TIAGO MATOS
Dottor Grenvil TOMISLAV LAVOIE
Giuseppe JOHN BERNARD
Domestico di Flora CHRISTIAN-RODRIGUE MOUNGOUNGOU
Commissionario PIERPAOLO PALLONI
Orchestra e Coro dell’Opéra national de Paris
Direttore Dan Ettinger
Maestro del coro Alessandro Di Stefano
Regia Benoît Jacquot
Scene Sylvain Chauvelot
Costumi Christian Gasc
Luci André Diot
Coreografia Philippe Giraudeau
Parigi, 25 febbraio 2018
Giunta alla sua 38-esima ripresa, l’affermata produzione diretta da Benoît Jacquot si appresta a lasciare la scena dell’Opéra Bastille, passando il testimone all’allestimento della nuova stagione, ma la sua stella tramonta lasciandosi ammirare per i principi di sintesi concettuale e puntuale interpretazione drammaturgica che l’hanno contraddistinta. Un albero sempreverde, come quello che nella campagna vela l’intimità dei due innamorati agli sguardi ipocriti del loro tessuto sociale, quasi si trattasse di un prezioso germoglio da coltivare con cura. Il gioco delle parti, con le scene di Sylvain Chauvelot, le luci di André Diot e la coreografia di Philippe Giraudeau si fonde, infatti, proprio nell’alternanza dei due quadri del secondo atto, dove l’argentea luce dell’esterno cede il passo all’artefatta atmosfera della festa, grazie a un frazionamento dello spazio scenico la cui costante è quella di sospendere la protagonista al di sopra dei flutti degli astanti, mentre i costumi di Christian Gasc modulano i toni della veste della giovane dalla purezza del bianco al lutto del nero: un sincronismo che cattura la duplicità della condizione di Violetta, come donna e come cortigiana. Tutti i sottintesi del bigotto convenzionalismo borghese sono al loro posto, almeno quanto le pennellate dell’ ”Olympia” di Manet, fedelmente riprodotta sulla testata del letto del soprano e su cui la giovane si sofferma quasi con timore, vedendo nei suoi occhi il monito di doveri a cui vorrebbe venire meno. Poco dopo sarà proprio lo stesso quadro a offrire un significativo tributo al dramma di Dumas, quando nello spoglio abbandono dell’ultimo atto appare reverso e predisposto alla vendita insieme agli accessori in dotazione per i preparativi dei ricevimenti; ma il principale merito del taglio registico è quello di aver preso, come Verdi, le difese della protagonista, innalzandola a unica vera eroina dell’opera, rispetto alla quale il sostrato del coro mantiene sempre le dovute distanze, soggiogato al dominio dei suoi sentimenti più autentici. Nelle recite del 21, 25 e 28 febbraio, la riproposizione dell’allestimento non doveva essere l’unico saluto coinvolto nella messa in scena, in quanto c’era grande aspettativa per la partecipazione di Anna Netrebko, che aveva da tempo manifestato al direttore artistico (Stéphane Lissner) la volontà di cantare un’ultima volta nel ruolo. Sfortunatamente, un’improvvisa indisposizione la costringe a ritirarsi in tronco da tutte e tre le date, lasciando al Teatro alla Scala di Milano la sua ultima presenza come Violetta. Malgrado lo scarso preavviso, la sostituzione viene ben gestita, anche se tra le file del pubblico si avverte un certo malumore. Pertanto, all’annuncio dell’ulteriore indisposizione di Plácido Domingo, nessuno è riuscito a eludere il boato di dissensi, che con ogni probabilità è stato la ragione di un incipit globalmente sottotono. Non faceva eccezione la Violetta di Marina Rebeka, in sordina sulle prime messe di voce e cauta nel coronare le scale ascendenti del “Sempre libera”, dove già il guizzo al re risuona al limite della tensione, scongiurando l’esecuzione del sovracuto conclusivo. La consueta proiezione si ristabilisce nel confronto con Giorgio Germont, quando il soprano si fa scudo con centri smaltati e si cala nella disillusione sfumando filature di sottile nitidezza, fino a schiudere un “Amami, Alfredo” dalla fonazione concisa e sensuale. Specularmente, l’abilità d’incastonare la tecnica scansione di agilità e abbellimenti in funzione di un piano interpretativo di rilievo è a dir poco singolare. Così, le attenuazioni sulle fioriture del brindisi e lo squillo delle puntature del primo duetto lasciano trasparire lo zampillo di un sentimento mai provato, mentre l’arguta gestione delle prese di fiato volge la linea di canto su dinamiche cangianti, opalescenti sugli smorzamenti delle ricadute tisiche, ma anche sensibili a marcati crescendo nelle chiuse degli assoli, lasciando adito a una continua ripresa. Con questa cornice, l’illusione del finale è la prosecuzione spontanea di un fraseggio interiorizzato di recita in recita che, per merito della diligente resa dei primi sintomi della tubercolosi, rende perfettamente credibile l’estenuante debilitazione del terzo atto. Accanto a lei, l’Alfredo di Charles Castronovo appariva piuttosto convenzionale. L’impostazione raccolta produce un timbro carezzevole e la voce gira con uniformità sulle note di passaggio, sebbene l’esecuzione sfugga alla tenuta degli acuti. Più discontinua l’esplorazione del registro medio-grave, su cui la centratura fonetica viene meno e il vibrato si fa più stretto, opacizzando la proiezione per la non semplice sala dell’Opéra Bastille. Già abile attore, il tenore statunitense sembra necessitare di qualche ulteriore performance per bilanciare il rapporto col fiato, incoraggiando l’evoluzione di un fraseggio ancora un po’ generico e la mutevolezza di soluzioni cromatiche da condurre con maggiore convinzione. Memore della decisa contestazione iniziale, Plácido Domingo si decide da ultimo a cantare la parte di Germont padre, conquistando la calorosa accoglienza degli spettatori. Non insisteremo, quindi, sull’omissione di qualche sillaba o sull’incerta entrata nell’intervento dell’ultimo atto, giacché il celebre interprete mantiene il piglio del veterano e, rispetto a ruoli più scuri, lo strumento vocale estende l’eredità della lunga carriera come tenore, risuonando perlopiù stentoreo anche senza la perfetta forma fisica. Se gli anni lasciano il loro segno in qualche suono vocalico più aperto o nella percepibile trazione che sigilla il sostegno di alcune chiusure di frase, intatta resta l’astuzia nel dosaggio delle intensità, difficilmente penalizzate dalla prevaricante direzione d’orchestra. Un Germont, il suo, che non emerge per le sfaccettature di un fraseggio introspettivo ma tutto sommato eguagliabile, quanto per i toni affranti che tradiscono l’umanità del personaggio in certe riprese, di cui è esempio l’insidiosa esecuzione del cantabile dell’aria. Vista la lauta partecipazione del pubblico francese, si conclude lasciando la parola a Jocelyne De Nicola  per approfondire aspetti riguardanti l’allestimento, la direzione d’orchestra, la prova del coro e delle parti secondarie nella serata di giovedì 8 febbraio, sottolineando giusto come l’adrenalina di una replica che è stata tutta un imprevisto costituisca di per sé uno dei maggiori valori aggiunti delle esecuzioni dal vivo. Foto Emilie Brouchon