Pesaro, 39° Rossini Opera Festival: “Il Barbiere di Siviglia”

Adriatic Arena, Pesaro, 39° Rossini Opera Festival
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Commedia in due atti di Cesare Sterbini
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Alberto Zedda
Il Conte d’Almaviva  MAXIM MIRONOV
Bartolo PIETRO SPAGNOLI
Rosina AYA WAKIZONO
Figaro DAVIDE LUCIANO
Basilio MICHELE PERTUSI
Berta ELENA ZILIO
Fiorello/Ufficiale WILLIAM CORRÒ
Ambrogio ARMANDO DE CECCON
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Coro del Teatro Ventidio Basso
Direttore Yves Abel
Maestro del coro Giovanni Farina
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Regista collaboratore e luci Massimo Gasparon
Pesaro, 19 agosto 2017
Già sulle ultime note del ROF 2017 si parlava con curiosità e attesa di questo Barbiere, destinato ad essere il titolo di punta dell’edizione presente, che quest’anno si carica dell’ulteriore onere di celebrare il centocinquantenario della morte di Rossini.
Primo motivo di interesse è ovviamente il titolo, infatti Il Barbiere di Siviglia è rimasta per duecento anni e continua ad essere l’opera più amata e conosciuta di Rossini. È poi l’opera dalla quale tutto ha avuto inizio: il primo contatto di Alberto Zedda con il Barbiere di Siviglia ha fatto nascere in lui l’esigenza di uno studio filologico serio sulle fonti, dal quale è nata nel ‘69 la prima edizione critica di un’opera rossiniana e da questa è scaturita la scintilla che ha portato all’istituzione del Rossini Opera Festival.
Altro motivo di attesa è il prestigio di Pier Luigi Pizzi, incaricato di firmare scene e regia di questa produzione tutta nuova, nata appositamente per la ricorrenza e per Pesaro. A fronte di tante aspettative abbiamo avuto uno spettacolo per molti tratti notevole, fortemente caratterizzato in diverse direzioni e direi singolare per la contrapposizione tra l’eleganza finissima di certi aspetti e scelte un po’ più a buon mercato, che non mi permetterei di definire cadute di gusto, ma concessioni ad una fruizione meno elitaria.
Principale artefice di questa dicotomia è proprio Pizzi che conosciamo come esteta raffinatissimo, creatore di immagini di rara pulizia e bellezza, e che tale si conferma pienamente in questa circostanza in veste di scenografo e costumista; alle prese con la regia sembra invece che voglia più del solito indulgere all’effetto, tirare l’applauso e la risata senza risparmio di mezzi, anche rimettendo in circolazione, come in un revival, un armamentario di lazzi, mossette, espedienti gestuali e sonori di una tradizione che negli ultimi decenni è stata spesso considerata deteriore, forse talora con severità eccessiva, e pertanto accantonata.
Si tratta, mi pare, di un’inversione di tendenza rispetto al consueto rigore che caratterizza lo spirito delle esecuzioni del ROF. È pure vero che, come in tutti gli ambiti, anche nella cultura ci sono dei trend, se proprio non vogliamo chiamarle mode, che si alternano in corsi e ricorsi e quindi allentare un po’ i freni e sollecitare senza complessi la reazione epidermica del pubblico rappresenta forse la nouvelle vague nelle riproposizioni del Rossini buffo; certamente Alberto Zedda, il cui nome aleggia inevitabilmente, aveva in merito opinioni diverse, si dichiarava addirittura offeso dal fatto che il pubblico potesse ridere durante una rappresentazione e bollava come ‘caccole’ da lasciare decisamente nel passato tutti i mezzi extramusicali volti a suscitare quella che lui chiamava “una reazione meccanica”, ovvero la risata; e per diversi decenni l’opinione di Zedda ha avuto, a Pesaro e non solo, valore pressoché normativo in ambito di esecuzioni rossiniane. Abbiamo quindi un Pizzi scenografo e costumista che ancora una volta realizza una messa in scena elegantissima, dotata di un equilibrio e di una pulizia formale mirabili; architetture dalle forme semplici e severe, agili pilastri con modanature suggeriscono un Settecento particolarmente castigato sia negli ambienti esterni che nell’interno della bella casa di Don Bartolo; come d’abitudine i colori sono pochissimi, i toni di un bianco ghiaccio per le architetture e per il cielo che da lattiginoso si farà alla fine tenuemente rosato, i costumi dei personaggi maschili rigorosamente bianchi e neri, macchie di colore vivace in bellissimo contrasto date dai costumi dei personaggi femminili e da qualche elemento scenico. L’insieme è così luminoso che, pur nella prevalenza di toni freddi, suggerisce un che di mediterraneo; l’equilibrio della prima scena, la piazza con i due palazzi speculari, perfettamente simmetrica a meno di qualche minimo dettaglio che infonde un pacato movimento, e il modo razionale, perfettamente calibrato in cui questa si trasforma nel patio della casa del Dottore, appagano pienamente l’occhio e lo spirito. Altrettanto notevole è la misura tra la cura di certi particolari – il bricco per montare il cioccolatte, ad esempio – e l’essenzialità. Niente è abbozzato o ha sentore di cartapesta, niente è ridondante di finitura o decorazione. Il cast è composto interamente da “belli”: dai giovani e giovanissimi Rosina, Figaro e Conte ai vecchi Basilio, Bartolo e Berta hanno tutti un’ottima presenza, un portamento nobile, un fisico armonico e sono vestiti con costumi non solo belli ed eleganti, ma che cadono addosso ad ognuno con perfezione sartoriale.
Tanto entusiasmo estetico porta Pizzi a voler mostrare qualche bel corpo anche scoperto.
Il Conte fa la sua prima sortita a torso nudo in terrazza (evidentemente ha preso in affitto la casa dirimpetto a quella di Rosina per poterla vedere a tutte le ore) e si mette la camicia mentre dà istruzioni a Fiorello; Figaro invece fa il contrario, arriva vestito e si spoglia in piazza, sull’uscio di Don Bartolo, restando solo con i calzoncini settecenteschi al ginocchio, e così canta la sua cavatina facendo la passerella, agita la camicia in aria ancheggiando, mostra pettorali e addominali turgidi, ammicca al pubblico con grandi sorrisi da seduttore, raccoglie applausi oceanici. Solo alla fine si capisce perché si sia spogliato così, quando decide di darsi una rinfrescatina nella fontana.
La regia, come dicevo, è fluida, razionale e divertente, la vicenda scorre senza intoppi, tutto è perfettamente comprensibile, la drammaturgia è illustrata in modo cristallino, molti però sono i trucchetti, gli escamotage aggiunti per vivacizzare, rendere buffo, esilarante questo Barbiere e molti di questi provengono dalla tradizione.
Don Bartolo ha la erre moscia, Don Basilio invece balbetta nei recitativi. Il Conte ha due travestimenti, nel primo è il soldato ubriaco classico, nel secondo diventa un nanetto, camminando sulle ginocchia come Bice Valori in Gian Burrasca, e ostenta una esse muta alla spagnola (dice “maestro di mussica e allievo di Don Bassilio”). Berta e Ambrogio ripescano dalla tradizione tutti i possibili starnuti, spontanei o provocati, Berta, nei suoi bollori senili, spoglia e brancica un Ambrogio anzianetto ma ancora prestante. Bartolo verso la fine della sua aria, cantata prevalentemente in passerella, fa gesti da rapper; più avanti, nel concertato che chiude il Primo Atto, tutti in passerella si muovono come se fossero in una discoteca dei nostri anni. Molte altre sarebbero le gag da citare, i gridolini, il parlato aggiunto, le pantomime che l’orchestra e il maestro al fortepiano assecondano e rendono possibili attendendo e indugiando. La maggior parte di queste funziona, la reazione meccanica non si fa aspettare, tutti sono molto divertiti.
Senza trascurare le luci di Massimo Gasparon, efficacissime e perfettamente integrate con la parte scenica, passerei a dar notizia del cast vocale.
Il migliore dei giovani è Maxim Mironov che esibisce uno strumento esteso e morbido, un’emissione rifinita e forbita da cantante di lungo corso, nonostante la giovane età; è in grado di legare con dolcezza e declamare all’occorrenza, ha varietà dinamica a tutte le altezze, è capace di realizzare eleganti messe di voce e soprattutto di dare un senso a ciò che dice, anche nei recitativi, poi è un cantante rossiniano ormai rodato, padrone delle agilità e del sillabato.
Applaudito nella canzone e nella serenata, raccoglie vere e proprie ovazioni – meritatissime – nel rondò, cantato benissimo, con colorature rapide e nette, tutti i suoni centrati, senza ombra di affanno. Se vogliamo trovargli un difetto, ma più che difetto è una caratteristica naturale, la voce non è grande, ha una sua capacità di correre, ma si avvantaggerebbe molto di un teatro all’italiana, magari di dimensioni moderate, dall’acustica più “gentile” (forse giova ricordare che l’Adriatic Arena è un palazzetto dello sport, accomodato per la bisogna con pannelli e arredi mobili).
Inoltre ha il portamento, i lineamenti i colori perfetti per il nobiluomo, ma all’occorrenza ha un che di fanciullesco e dispettoso nella fisionomia e nella gestualità, che lo rende molto appropriato e divertente quando serve.
Davide Luciano presta a Figaro un fisico da atleta e una voce ampia di bel timbro naturalmente scuro; anche nel suo caso l’esperienza rossiniana gli garantisce pertinenza stilistica e musicale.
L’emissione è a volte un po’ fibrosa, specie negli acuti estremi, i sol della cavatina ad esempio, risolti di spinta; i nodi non vengono al pettine finché il bel timbro e la gioventù soccorrono.
La recitazione è spigliata, direi esuberante come richiesto dalla concezione generale dello spettacolo.
Aya Wakizono è una Rosina diligente, bella ed elegante in scena, precisa nell’intonazione e nelle colorature, si impegna a dare senso e ‘pepe’ ai recitativi, partecipa con vivacità alla girandola di trovate sceniche; la voce è limpida e a suo agio nel settore acuto, la regione media è tubata e scurita alla ricerca di uno spessore mediosopranile che latita, con vocali spesso artefatte che mortificano la naturale bellezza del suo strumento, mentre il registro grave suona un po’ vuoto.
Decisamente in parte è Pietro Spagnoli come Don Bartolo, se non fosse per il timbro così marcatamente chiaro. Delinea un tutore non eccessivamente velenoso, anzi alla fine bonario, perdente ma con stile; i suoi recitativi sono pieni di arguzia, il sillabato rapidissimo piuttosto entusiasmante, la vis comica cattura e seduce, al di là delle trovate registiche che si possono condividere o no.
Grande Don Basilio è Michele Pertusi, dalla voce ancora doviziosa e tonante, che offre al pubblico una Calunnia di alta classe vocale e attoriale; ha una spiccata signorilità e una gestualità sobria che rendono il suo personaggio, solitamente il più a rischio di cadere nella ‘macchietta’, particolarmente nobile e distinto: non il solito morto di fame senza dignità, ma uno che esercita l’arte dell’imbroglio con autorità quasi notarile, forse non pienamente in linea con il libretto, ma molto affascinante.
Impagabile scenicamente è la Berta di Elena Zilio, vecchia gloria del teatro lirico italiano sulla cui voce si è depositata più di una scoria; nonostante ciò sono evidenti le risorse tecniche della fuoriclasse e l’autorità interpretativa, nel canto e fuori. La sua Berta è una tata affettuosa per Rosina, sorveglia con bonaria apprensione le mattane di Don Bartolo e in fin dei conti è la figura di più forte personalità in casa del Dottore, indipendentemente dall’esiguità della parte.
William Corrò è corretto nella doppia parte di Fiorello e dell’Ufficiale di polizia, anche lui scatenato scenicamente, quando richiesto.
Una menzione merita nel ruolo muto di Ambrogio la bravura dell’attore Armando de Ceccon, artificiosamente invecchiato nei panni del maggiordomo artritico, perfettamente credibile e divertente.
La direzione di Yves Abel lascia un po’ sconcertati; fin dalla Sinfonia si avvertono aspetti che poi caratterizzeranno il seguito dell’opera, ovvero scatti repentini tra tempi indugianti e tempi rapidissimi e una certa inclinazione al fragore, con percussioni inopportunamente invadenti e sferraglianti. Tanto impeto compromette a volte anche la compattezza del suono orchestrale che qua e là si sfalda nei crescendo condotti stringendo a dismisura. È una scelta musicale ‘effettistica’ forse coniugata con un certo ‘effettismo’ della messa in scena? Non so. Certo riesce difficile in questo caso anche esprimersi sull’ Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, compagine solitamente solida e inappuntabile.
Validissimo si dimostra invece il Coro del Teatro Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, dotato di flessibilità dinamica e bellezza sonora adeguata. Al termine della recita è un vero tripudio di applausi, ovazioni, battiti di tacco sull’assito di legno che vibra e romba.
Pertusi e Spagnoli sono sommersi di applausi, Mironov e Luciano ancora di più, Elena Zilio è affettuosamente festeggiata, all’uscita di Pier Luigi Pizzi si scatena ulteriore entusiasmo, tutti si godono gli applausi sfilando in passerella da soli, insieme, ripetutamente.