A 120 anni dalla nascita
Concerto in fa per pianoforte e orchestra
Allegro
Adagio, Andante con moto
Allegro agitato
Durata: 32’ca
Nato sull’onda del grande successo ottenuto da George Gershwin con la storica esecuzione, il 12 febbraio 1924 all’Aeolian Hall di New York, della Rhapsody in blue, il Concerto in fa per pianoforte e orchestra, una delle sue opere più famose e maggiormente eseguite dalle principali orchestre di tutto il mondo, ha contribuito notevolmente alla fama di sinfonista del jazz meritata dal compositore americano. Tra i musicisti favorevolmente impressionati dalla Rhapsody in blue c’era anche il direttore d’orchestra di origine tedesca, Walter Damrosch che in quel periodo era alla guida della New York Symphony Orchestra; fu proprio lui a contattare il compositore americano per un nuovo capolavoro sinfonico da eseguire nella prestigiosa Carnegie Hall, massimo tempio musicale della città. Per questa nuova commissione Gershwin, dopo aver firmato un contratto che prevedeva la sua apparizione nelle vesti di solista per ben sette volte, decise di impegnarsi nella composizione di un concerto per strumento solista e orchestra, cioè di un pezzo di musica assoluta tipico della tradizione colta occidentale il quale non presenta alcun legame con un programma extramusicale. Con la composizione di un lavoro di musica assoluta Gershwin, che non amava particolarmente i vincoli formali, mostrò non solo di accettare un’autentica sfida, ma volle confermare anche le sue qualità di compositore “serio”, già dimostrate con la Rhapsody in blue, come egli stesso ebbe modo di ricordare qualche anno dopo:
“Molta gente pensava che la Rhapsody rappresentasse solo un episodio fortunato. Bene, io decisi di far vedere loro di quanto fossi capace. Raccolsi tutte le mie forze per creare un pezzo di musica assoluta. La Rhapsody, come il titolo implicava, era un’impressione basata sul Blues. Il Concerto avrebbe dovuto essere esente da relazioni con un programma. È esattamente in questa prospettiva che lo scrissi. Ho imparato molte cose da quell’esperienza, particolarmente per ciò che concerne il lavoro di combinazione strumentale”.
La composizione del concerto non fu, tuttavia, particolarmente rapida; dopo la firma del contratto Gershwin fu costretto a partire per Londra per seguire da vicino la produzione del suo ultimo musical, Tell me more, che riscosse un enorme successo. Nella capitale inglese incominciò a stendere i primi abbozzi di questo concerto che egli chiamava New York Concerto, al quale lavorò in modo più assiduo al suo rientro negli Stati Uniti all’inizio del mese di giugno del 1925; non avendo trovato, nel suo appartamento di Manhattan, la pace necessaria per concentrarsi nel lavoro di composizione, chiese aiuto al suo amico Ernest Hutcheson, pianista australiano, che, all’epoca, teneva dei corsi di perfezionamento al Chautauqua Institute nello stato di New York. Hutcheson ospitò qui Gershwin, ingiungendo ai suoi studenti di non andare a disturbare il compositore prima delle quattro del pomeriggio, ma allo scoccare della fatidica ora una folla di giovani si riversava nel suo studio per sentirlo cantare e suonare le sue canzoni. In quella cittadina riuscì a completare nella versione pianistica i tre movimenti del concerto di cui curò l’orchestrazione quando rientrò a New York, dove, sempre alla disperata ricerca di serenità, decise di stabilirsi in un appartamento del Whitehall Hotel. Il Concerto, la cui travagliata stesura fu ultimata il 10 novembre 1925, fu eseguito il 3 dicembre dello stesso anno, sotto la direzione di Damrosch e con Gershwin in qualità di solista, con un notevole successo di pubblico al quale non corrispose, per la verità, quello della critica che non fu unanime nella lode. Se, infatti, Samuel Chotzinoff, l’autorevole critico del «New York World», si mostrò entusiasta di questa partitura, affermando: «Gershwin è il solo che ci esprime autenticamente. Rappresenta il presente, con tutta la sua audacia»,molto più tiepido fu il giudizio di Djagilev, il celebre impresario dei Ballets Russes, che stroncò il Concerto in modo lapidario rilevando che in esso c’era Del buon jazz, ma del cattivo Liszt.
Il primo movimento, Allegro, si apre con un’introduzione di carattere percussivo che lascia il posto ad un cantabile tema affidato al pianoforte al quale si contrappone il secondo, una forma di valzer. Molto suggestivo è il grandioso finale del movimento nel quale ritorna il primo tema.
Un suggestivo tema di blues caratterizza il secondo movimento (Adagio, Andante con moto), che si apre con un’elegante melodia affidata alla tromba accompagnata da un trio di clarinetti, mentre il terzo movimento, Allegro agitato, è formalmente un rondò di carattere martellante nel quale si possono individuare diversi riferimenti al ragtime.