Napoli, Teatro Politeama: “Don Checco”

Napoli, Teatro Politeama, Stagione lirica del Teatro di San Carlo 2017/18
DON CHECCO”
Opera buffa in due atti su libretto di Almerindo Spadetta
Musica di Nicola De Giosa
Don Checco DOMENICO COLAIANNI
Bartolaccio CARMINE MONACO
Fiorina BARBARA BARGNESI
Carletto GIOVANNI SALA
Signor Roberto ROCCO CAVALLUZZI
Succhiello Scorticone GIUSEPPE ESPOSITO
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo di Napoli
Direttore Carmine Pinto
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Lorenzo Amato
Scene Nicola Rubertelli
Costumi Giusi Giustino
Luci Vincenzo Raponi
Allestimento del Teatro di San Carlo in coproduzione con Festival della Valle d’Itria del 2015
Napoli, 18 novembre 2018
Termina la Stagione d’opera 2017/18 del Teatro di San Carlo di Napoli con Don Checco: opera buffa in due atti, composta dal Maestro barese Nicola De Giosa (1819-1885), su libretto del poeta napoletano Almerindo Spadetta, fu rappresentata per la prima volta al Teatro Nuovo di Napoli l’11 luglio 1850 dove ottenne un notevole successo. De Giosa oggi è particolarmente noto per aver avuto una disputa con Giuseppe Verdi, legata alla prima di Aida, avvenuta al Cairo nel 1871: il “Sommo”, come De Giosa definì Verdi in una lettera dell’11 novembre 1863, non volle il compositore pugliese come direttore d’orchestra perché desiderava un interprete di sua fiducia, ovvero il lombardo Giovanni Bottesini, assai stimato da Verdi per il suo “talento e come compositore e come concertista”, come il Maestro gli scrisse il 4 marzo del 1883. Ovviamente, oltre al fatto meramente aneddotico legato a Verdi, Nicola De Giosa meriterebbe d’essere ricordato per altro. Nicola (o Niccola, come si firmava nelle sue lettere) cominciò la sua istruzione musicale studiando flauto e, nel 1834, divenne allievo del Regio Conservatorio di Napoli San Pietro a Majella. Per il pupillo di Gaetano Donizetti, il successo arrivò proprio con Don Checco che, al Nuovo di Napoli, fu replicato per novantasei sere. Dal 1851 in poi, il compositore pugliese si cimentò nell’opera seria, riscuotendo successi ed insuccessi al Real Teatro di San Carlo di Napoli. Negli anni successivi il 1857, il Maestro si dedicò prevalentemente alla direzione dorchestra. Apprezzato per laccuratezza posta nella concertazione, De Giosa, dopo altri successi riscossi sempre a Napoli, si ritirò poi nella sua Bari dove spirò, lasciando ai posteri il suo capolavoro, Don Checco.
Contravvenendo ad un parametro interpretativo sempre grasso e maccheronico dell’opera buffa, soprattutto quella napoletana, Carmine Pinto ha assunto una linea interpretativa sempre sobria e costantemente trasparente. Una prassi interpretativa caratterizzata da una agilità, tipicamente partenopea, sempre squisitamente dosata soprattutto attraverso una cura dei tempi staccati, mai pesanti, ma appropriatamente trattati entro schemi non forzati, non grevemente scanditi o sillabati. Pinto effettua una vera e propria ristrutturazione stilistica del genere buffo, con l’abbandono d’un artefatto e vuoto gigioneggiare balbuziente ed urlato. Si tratta d’una interessante impronta interpretativa, non già mera riesumazione del cadavere d’un nobile decaduto, ma notevole recupero d’un’opera, preda dell’abbandono, tratteggiata da una elegante flessibilità dei tempi, dall’intensità strumentale sempre serrata ed accuratamente adeguata ed opportuna dell’Orchestra del San Carlo, e da accompagnamenti flessuosi, elastici, versatili, mai appesantiti. Una esecuzione pervasa da un dinamismo tutto napoletano, particolarmente presente soprattutto nei vari Allegri; un dinamismo però mai volgare o nervoso, ma sempre illuminato da una gradevole eleganza, non già solo mera reminiscenza umoristica o caricaturale del languore dell’opera seria o del dramma giocoso, giuoco o espediente adoperati dal compositore, ma elemento fondamentale per una corretta interpretazione. Una eleganza frutto di una salda consuetudine interpretativa: linea melodica sempre attendibile, a tratti frammentata da indugi estatici. Ciò è comprensibile, soprattutto perché si tratta d’un’opera costituita da arie, cavatine e cabalette, ancora fermamente e felicemente attaccate a canoni belcantistici. Un corretto dispiegamento dell’opera sul palcoscenico, dunque, avvenuto anche attraverso la rispettosa regia di Lorenzo Amato, con scene curate da Nicola Rubertelli, costumi di Giusi Giustino, luci di Vincenzo Raponi . S’è trattata d’una regia equilibrata, soprattutto basata su una rispettosa collaborazione tra orchestra e palcoscenico, adatta a lodare, dunque, una partitura tanto interessante. Una regia corretta e flessibile, non già mera trasposizione scenica delle notazioni del libretto, ma essenziale per una opportuna comprensione dell’opera. Una regia felicemente ancorata ad una prassi tradizionale. Un teatro non superato, una squisita produzione tratteggiata soprattutto dalla presenza di personaggi magari stereotipati, catturati dal mondo del Settecento napoletano, e trapiantati in un terreno tuttavia assai moderno. Una teatralità, felicemente sopra le righe ma ben trattata dal regista, che possiamo poi scorgere nelle commedie del nostro Eduardo De Filippo o nei personaggi caricaturali della Canzone umoristica napoletana, interpretati dal grande Nino Taranto. In questo contesto il Coro, preparato magistralmente da Gea Garatti Ansini,  è uno sciame balbettante che strepita per il vino che ancora tarda ad arrivare e che, in preda ad una buffa dispersione della parola, quasi come se la parola evaporasse e i cori assumessero la forma d’una scaramuccia sinfonica. Una trasparenza, dunque, tanto moderna quanto tradizionale; una teatralità abitata da attori futuristi e marionette avveniristiche, come fu Totò. Particolare spicco riceve soprattutto la blasonata “lengua napulitana”, Nella cornice del tradizionale allestimento del San Carlo in coproduzione col Festival della Valle d’Itria, Domenico Colaianni, baritono nel ruolo del titoloe già protagonista a Martina Franca nel 2015. Ben supportoto da una voce robusta e omogenea in tutti i registi, Coloianni da autentico buffo e attore consumato, con baldanzosa, ma mai eccessiva teatralità, scavalca ed abbatte la parola, che, cadendo annullata, scompare lasciando spazio a frasi morsicate e balbettamenti.  Un “burattino” snodato che, ponendo gran cura soprattutto nella pronuncia della lingua napoletana, rievoca la fragilità portentosa del napoletano, eterna vittima.  Il basso-baritono Carmine Monaco nel ruolo dell’oste Bartolaccio (anche lui era nel cast di Martina Franca) è quasi una sorta di Rigoletto ante litteram, ossessionato dal suo amore filiale. Con una notevole tecnica del canto, propone un gonfio e baldanzoso personaggio catturato da una commedia del grande Eduardo Scarpetta. Anch’egli piega come desidera la linea del canto, ora possente, ora fintamente languido, alla volontà dei tempi e della parola teatrale. Padre geloso della bella figlia Fiorina, interpretata dal soprano Barbara Bargnesi. Reminiscenza fintamente drammatica d’una eroina tormentata da un amore ostacolato, la cantante sfoggia una voce fresca, ammantata da un colore tenue e tenero. Con emissione luminosa e  una notevole agilità si  propone come leggera e toccante caricatura del tormento amoroso. La bella Fiorina arde d’amore per Carletto, garzone dell’osteria del padre, interpretato dal tenore Giovanni Sala. Con una voce bella e piena ed un fraseggio armonioso e ben curato, interpreta un personaggio fintamente dolente, magari sbiadito nipote di Nemorino di donizettina memoria. Voce omogenea, calda e limpida, a tratti mesta ed espressiva, s’ammanta d’una trasparente tenerezza. Corretti appaiono anche i ruoli minori interpretati  dal basso Rocco Cavalluzzi (Roberto) e dal baritono Giuseppe Esposito (Scorticone). Un ‘operazione salutata da un pieno succsso di pubblico per tutti gli interpreti.