Genova, Teatro Carlo Felice – Stagione d’Opera 2018-19
“SIMON BOCCANEGRA”
Melodramma in un prologo e tre atti, su libretto di Francesco Maria Piave, con aggiunte e modifiche di Arrigo Boito, dal dramma “Simón Bocanegra” di Antonio García Gutiérrez.
Musica di Giuseppe Verdi
Simon Boccanegra LUDOVIC TÉZIER
Amelia Grimaldi VITTORIA YEO
Jacopo Fiesco GIORGIO GIUSEPPINI
Gabriele Adorno FRANCESCO MELI
Paolo Albiani LEON KIM
Pietro LUCIANO LEONI
Un’ancella di Amelia ALLA GOROBCHENKO
Fantasma di Maria LUISA BALDINETTI
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore Andriy Yurkevych
Maestro del Coro Francesco Aiberti
Regia e Scene Andrea de Rosa
Costumi Alessandro Lai
Light e video design Pasquale Mari
Allestimento del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo
Genova, 17 febbraio 2019
Il “Simon Boccanegra” in scena al Carlo Felice di Genova ha qualcosa di miracoloso, ma va detto senza delirio, sottovoce: anche perché, a ben vedere, dovrebbe essere questa la regola, la “normalità”. Un cast di altissima caratura, una regia attenta alle sfumature e dalle suggestioni forti, delle scene che si pongono come un ponte tra libretto e architettura contemporanea, dei costumi semplici ed incisivi, luci evocative e proiezioni non invasive, un’orchestra capace, benissimo diretta: questi gli ingredienti per l’”opera perfetta”? No: questi dovrebbero essere gli ingredienti dell’opera tout court, la base da cui partire per elevarsi e tendere alla perfezione. Ahinoi, sappiamo troppo bene che questa visione è, tuttavia, vano sogno, che è ben d’altro (più diafano) spessore il livello medio delle produzioni d’oggi. Così, quando sentiamo l’Adorno di Francesco Meli (col suo canto in equilibrio tra le molte sfumature, con la parola chiara e solidamente sostenuta) eseguire “Sento avvampar nell’anima”, spontaneamente facciamo partire quasi tre minuti di applausi a scena aperta. Probabilmente contribuisce a questo slancio anche che Amelia sia finalmente interpretata da una voce liricamente verdiana nel senso migliore del termine (Vittoria Yeo), il bel recitar cantando che fluisce in melodie rigogliose, dalle venature a tratti di poca morbidezza, ma certamente dal suono proiettatissimo, dal fraseggio preciso e vibrante, dagli acuti adamantini; o sarà forse la strabordante, fascinosa personalità scenica di Ludovic Tézier, che impreziosisce l’impareggiabile controllo vocale del baritono, il suo suono pieno senza essere stentoreo, l’attenzione costantemente rivolta alla parola (scandita benissimo) e alla sua intenzione. Non ci è dato saperne la ragione, ma sappiamo perfettamente cosa succeda di fronte a queste performance: il pubblico più pretenzioso, snob, critico, ritroso, si scioglie, riconosce un barlume di opera autenticamente tale, e questo stupore, che trasfigura in meraviglia, contagia, moltiplica gli entusiasmi, per una volta non di fronte ai soliti “cantantoni” tutti acuti e nient’altro, ma davanti a un cast di talenti pronti a darsi tramite la propria arte. Occorre riconoscere a questa piena riuscita anche l’enorme, imprescindibile apporto della magistrale direzione del Maestro Andriy Yurkevych: non percepiamo quasi mai gli strumenti, ma un unico suono, vivo, trasudante emozione, quasi umano. L’orchestra sotto la sua bacchetta è un vero personaggio, è in scena, guida la narrazione, non si scolla mai dai cantanti, che con apparente facilità si lasciano portare. Non c’è un ritardo, una nota fuori posto, una velleità messa a nudo: il Maestro è Maestro per davvero, per una volta, e nessuno osa contravvenire alle sue direzioni – principalmente perché non sono “le sue” ma quelle dello spirito, del talento, della partitura: impossibile non condividerle. Infine, ma non per ultimo, dobbiamo considerare l’allestimento del Teatro Mariinskij a firma tutta italiana; una scena che, va detto chiaramente, non convince al primo sguardo: nel prologo il buio è tanto, lo sfondo è nero, il pavimento antracite. Ma come si alzano le luci e si apre quello sfondo, mostrando possenti stilizzazioni medievali stagliarsi nere su un’alba sul Mar Ligure (videoproiettata, quindi in movimento continuo), come entra Amelia, e si copre d’un soprabito blu oltremare, quasi creatura marina ella stessa, l’occhio gode delle cromie, del crescendo luminoso, delle linee pulite che sembrano dipanarsi dal canto e contornare il decoro, o disegnarsi in scena per poi incarnarsi nel canto. Al secondo atto, non abbiamo più scampo: il coro invade una scena cupa come la maledizione di Boccanegra, partecipe sia teatralmente che musicalmente (grazie al buon lavoro del Maestro Francesco Aliberti, senza dubbio), e quel “Sia maledetto!”, sussurrato intorno allo scoperto Paolo, risuona da secoli, attraverso Edipo, Mercuzio, Wallenstein, ci toglie il respiro. Poco importa che Leon Kim, nella parte proprio del maledetto Albiani, sia forse il componente più affaticato del cast (pur dando comunque una buona prova d’attore): è a noi che sibila “Orrore!”, che rivela nell’atto seguente il suo piano omicida; quando Fiesco (un Giorgio Giuseppini in gran forma, dal fraseggio attento e i gravi sonori) sul finale lo minaccia con la spada, per poi liquidarlo con un lucido “non lo sperar; sei sacro alla bipenne”, vorremmo noi impugnare quella spada, perché, in fin dei conti, “Simon Boccanegra” dovrebbe essere una storia a lieto fine: lui riconosce lei, poi il suo innamorato, tiene le redini del popolo e vuole inaugurare una stagione di pace. Lui non deve morire: ma se è vero che anche nel Giardino dell’Eden sia riuscito a insinuarsi una serpe, figuriamoci nel Palazzo Ducale della Genova trecentesca. Albiani uccide in maniera subdola e dolorosa (probabilmente la morte più lunga dell’opera italiana), come la maldicenza, come l’indifferenza, come l’accidia. Odiamo Albiani perché Albiani siamo noi, è il peggio di noi, mentre Simone è quello che vorremmo essere, che ci è stato insegnato, che sappiamo essere giusto: impossibile che sopravviva; meglio il focoso e impulsivo Adorno, quasi stolido nel non capire subito quale sia l’“amor santo” che lega la sua bella al Doge: poco genio, ma tanto cuore, e, si spera, grazie al sacrificio di Simone, un buon futuro arbitro di genovesi troppo dilaniati e accalorati. E la bella, elegante, Amelia di Vittoria Yeo, che abbraccia il padre prima dell’innamorato, virtù senza pudicizia, pronta a esporsi di fronte a tutti, denunciando il suo rapimento, non è forse la figlia, la sorella che tutti vorremmo? Il suo canto così specifico, nitido e potente, dolce e disperato, tutto una contraddizione, è l’espressione non della fanciulla, ma dell’eterno mito femminino che adoriamo, della dea dentro la donna, della domina che si fa angelo, ma che, in fin dei conti, ottiene, in cambio della perdita del padre, l’Amore. Siamo lontani anni luce dallo splendido martirio di Desdemona, dal fato crudele di Gilda, dall’espiazione di Violetta: qui non c’è morte, ma monito imperituro di Vita. Tutto questo è “Simon Boccanegra”, ma, probabilmente, non ce ne saremmo accorti su un altro palco, con un altro cast; e non per mancanza originaria – impossibile! -, ma perché Boito e Verdi hanno confezionato davvero un’opera nuova e profonda, e noi, oggi, non riusciamo più a scendere nell’abisso da soli. A questo servono scene, costumi, regia e soprattutto le interpretazioni dei cantanti: devono essere i virgili dei distratti e polemici danti postcontemporanei. Se chi si occupa di questo si sottrae in un modo o nell’altro all’incarico, perderemo il senso di quest’arte straordinaria; ma ancor peggior pericolo correremo se non impareremo noi ad abbandonarci ancora a loro, anestetizzati dalla banalità. Oggi, al Carlo Felice di Genova, una chiara speranza che tutto ciò non accada l’abbiamo avuta. In futuro, comunque, non abbasseremo la guardia. Foto Marcello Orselli