Venezia, Teatro La Fenice, Stagione sinfonica 2018-2019
Orchestra di Padova e del Veneto
Direttore Marco Angius
Tenore Enrico Casari
Luciano Berio: Quattro versioni originali della “Ritirata notturna di Madrid” di Luigi Boccherini sovrapposte e trascritte per orchestra
Ferruccio Busoni: Rondò arlecchinesco op. 46
Giuseppe Verdi “: Macbeth”: Ballabili
Giuseppe Verdi/Luciano Berio: Otto romanze per tenore e orchestra
Venezia, 25 febbraio 2019
Tra gli arrangiamenti più famosi di Luciano Berio, vi sono certamente le Quattro versioni originali della Ritirata notturna di Madrid di Luigi Boccherini sovrapposte e trascritte per orchestra. Composto in seguito a una commissione dell’Orchestra del Teatro alla Scala nel 1975, questo pezzo, di carattere leggero, doveva essere eseguito come bis nel corso di una tournée dell’orchestra scaligera all’estero. La Ritirata notturna di Boccherini – uno dei massimi compositori del Settecento – risale agli anni del suo soggiorno in Spagna, dove inizialmente fu a servizio dell’Infante Luis Antonio, fratello del re Carlos III. Essa nacque come pezzo conclusivo della Musica notturna delle strade di Madrid, polittico orchestrale del 1780 – formato da varie immagini della città –, che inizia con l’Ave Maria, dove gli strumenti imitano i rintocchi delle campane della cattedrale, e termina appunto con La Ritirata notturna, vale a dire il passaggio della ronda militare, ad annunciare il coprifuoco. In essa un ricorrente tema marziale viene sostenuto da un incalzare di note ribattute, che scandiscono un ritmo alternativamente di quartine e terzine. Il pezzo divenne così popolare, che l’autore decise di trascriverlo più volte per diverse formazioni da camera – due versioni per quintetto d’archi, una per quintetto con pianoforte, un’altra per quintetto con chitarra, ecc. – apportando ogni volta al testo delle piccole varianti. Quattro di queste versioni originali rappresentano la fonte per la rielaborazione di Berio, che, come dice il titolo, le ha sovrapposte – con qualche voluto effetto dissonante – e trascritte per orchestra. L’autore parte, in pianissimo, proprio dal ritmo ostinato, vero motore del pezzo, che è in forma di tema con undici variazioni, e rivela una raffinatissima orchestrazione. In ogni variazione Berio aumenta l’organico orchestrale, con l’intersezione di sempre più varianti originali, per dare l’idea dei drappello che si avvicina. Questo fino alla settima. Dopodiché – il gruppo si allontana – le sonorità diminuiscono, finché il pezzo si spegne in pianissimo, così come era iniziato. Impeccabile, autorevole si è dimostrato Angius nel guidare questa non facile esecuzione, in cui si è apprezzato un suono sempre nitido e cristallino, a conferma dell’ottima forma dell’Orchestra di Padova e del Veneto, di cui è direttore artistico. Una menzione particolare va ai percussionisti, che devono sottoporsi ad una sorta di maratona, spesso emergendo in primo piano.
Un’eccellente prova hanno fornito gli esecutori anche nel Rondò arlecchinesco – Harlekins Reigen (Ridda di Arlecchino) ne è il titolo in tedesco – di Ferruccio Busoni, la cui composizione, iniziata a New York nel 1915, può essere intesa come schizzo sinfonico preparatorio per il capriccio teatrale, in quattro quadri, Arlecchino ovvero le finestre, al quale pure stava lavorando, come testimonia, tra l’altro, il breve intervento, alla fine, di un tenore fuori scena. Nell’organico del Rondò – tale più di nome che di fatto, essendo la sua struttura assai libera – troviamo un’ampia sezione di percussioni, oltre a vari strumenti, che rappresentano altrettanti aspetti della maschera: la tromba ne esprime l’atteggiamento sfrontato, l’ottavino la voglia di irridere il mondo, i contrabbassi il tono minaccioso, il violoncello l’attitudine lamentosa, il violino l’abilità nel darsi alla fuga. Angius – che è uno dei maggiori specialisti di musica contemporanea – ha offerto, di questa “ridda” musicale, un’esecuzione improntata a toni scanzonati, leggeri, sgargianti, in cui risaltava l’elemento timbrico, coloristico, insieme a quello percussivo, tra perentorie fanfare della tromba, rulli di timpano e di tamburo, figure ritmiche ossessive, interventi più pacati degli archi, fino al finale con la sola percussione, in pianissimo e diminuendo, in cui Arlecchino intona uno spensierato, ma anche beffardo, “la,la,la”.
Molto interessante è risultato l’ascolto dei Ballabili dal Macbeth, di rara esecuzione in un concerto. Com’è noto Verdi, li compose in vista della prima rappresentazione dell’opera al Théâtre Lyrique di Parigi (21 aprile 1865), occasione per la quale sottopose l’intera partitura a una profonda revisione, aggiungendo appunto i ballabili, dopo la scena prima del III atto, com’era consuetudine nel grand-opéra francese. Si tratta di tre distinte danze culminanti con l’apparizione di Ecate, dea della notte, dopo essere stata evocata dalle streghe. Superba l’esecuzione di questi dieci minuti di musica, di cui l’autore, in genere impietoso anche verso se stesso, era pienamente soddisfatto: Angius e la sua orchestra ne hanno evidenziato la vigorosa bellezza dell’orchestrazione, l’energia ritmica, la teatralità insita nella stessa ispirazione melodica. Con le Otto romanze per tenore e orchestra Luciano Berio – esponente di spicco dell’avanguardia postbellica, ma pur sempre legatissimo alla tradizione – fa una sostanziosa incursione nel teatro musicale del primo Verdi, orchestrando una serie di romanze, su testo di diversi autori, per le quali il bussetano aveva previsto il solo accompagnamento del pianoforte: “In solitaria stanza” (Jacopo Vittorelli), “Il poveretto” (S. Manfredo Maggioni), “Il mistero” (Felice Romani), “L’esule” (Temistocle Solera), “Deh, pietoso, oh Addolorata” (Johann Wolfgang Goethe, traduzione di Luigi Balestra), “Il tramonto”, “Ad una stella”, “Brindisi” (tutte e tre di Andrea Maffei). L’intervento di Berio, però, non si limita a riesumare i procedimenti orchestrali del Verdi degli “anni di galera”, in quanto – com’era suo costume anche quando arrangiava musica altrui – il suo approccio al testo musicale è sempre creativo. In questo caso il trascrittore ha inteso differenziare il suo intervento, per adeguarsi alla peculiarità delle singole romanze: diverse per carattere espressivo, spessore musicale, qualità artistica. Talora dunque ne esalta la “verdianità”, mentre altre volte interviene sul discorso musicale originale, divertendosi a contaminare il contesto storico di riferimento – ad esempio, con citazioni dal Verdi della Traviata o, addirittura, dal Wagner del Lohengrin –, oppure inserendo proliferazioni tematiche o trasformazioni armoniche, a creare, per le orecchie più raffinate, un effetto di straniamento. Un solo esempio: la romanza “Deh, pietoso, oh Addolorata”, contenente una citazione o meglio un’anticipazione dal Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns, dove Berio adatta unpassaggio della musica verdiana alla raffinatezza armonica e coloristica del compositore francese. Autorevole Enrico Casari nel proporre queste romanze, così sapientemente rimaneggiate, anche se ci saremmo aspettati un’interpretazione più ricca di morbidezza e di sfumature. Caloroso successo, in ogni caso – con concessione da parte del tenore di un bis: “Brindisi” –, alla fine di una serata assai piacevole e interessante.