“p r i s m” di Ellen Reid vince il premio Pulitzer per la Musica 2019

Quando pensi che gli Stati Uniti dell’era Trump abbiano poco da dire e quel poco fa pure (molta) paura, accade l’imprevedibile: un’opera composta da una donna trentaquattrenne, che tratta di abuso sessuale e psicologico, vince il Premio Pulitzer per la Musica 2019.
In una nazione che negli ultimi anni è stata sconvolta dalle rivelazioni del movimento #MeToo, dai documentari Surviving R. Kelly e Leaving Neverland, che hanno lacerato il velo “angelicante” che avvolgeva, rispettivamente, R. Kelly e Michael Jackson, e che appena quattro anni fa è stata scossa dal caso di Gipsy Rose Blancharde, giovane ragazza americana che, insieme al fidanzato, ha ucciso la madre che per anni l’ha costretta a presentarsi come affetta da distrofia muscolare (e costretta sulla sedia a rotelle) e da leucemia (tentando anche di convincerla intimamente della cosa, esercitando una forma di violenza psicologica detta gaslighting), nonché vittima dell’uragano Katrina, apparentemente per appagare il proprio bisogno narcisistico di attenzione da sindrome di Münchausen per procura e, di fatto, mettendo in piedi una truffa colossale facendo leva sulla mobilitazione generale per aiutare questa povera, sfortunata ragazza, lo scorso 29 Novembre 2018 va in scena p r i s m , lavoro commissionato e co-prodotto dal Beth Morrison Projects, ente in prima linea nell’innovazione teatrale e musicale di stampo avanguardista che supporta autori famosi ed emergenti, e composto da Ellen Reid, su libretto di Roxie Perkins: una collaborazione opportunamente strategica, in quanto entrambe le donne sono state vittime di abusi sessuali e nessuno meglio di loro avrebbe potuto trattare questo tema spinoso e delicato con la sensibilità e l’onestà necessarie.

p r i s m racconta la storia di una ragazza malata, Bibi, e della madre eccessivamente affettuosa, Lumee, che vivono recluse in un angusto interno domestico, cercando di proteggersi reciprocamente dal mondo all’esterno, idealmente rappresentato da una minacciosa quanto misteriosa malattia che incombe e che ha già colpito Bibi, paralizzandone le gambe. Questa minaccia che incombe dall’esterno si presenta come una luce che incuriosisce e seduce Bibi, al punto da indurla a ribellarsi alla madre, compromettendo la loro relazione e il fragile equilibrio creatosi all’interno della loro casa, da loro chiamata “santuario”, e a dover decidere se scoprire la verità circa la sua malattia o accettare passivamente le storie che la madre le racconta per aggrapparsi all’unica vita che ha mai conosciuto.
La Giuria del Pulitzer, nell’assegnare il premio, ha sottolineato come Reid, per rappresentare efficacemente il tema dell’opera, abbia fatto ricorso ad una scrittura vocale sofisticata e all’uso di una tessitura strumentale straordinaria: un mosaico sonoro fatto di elettronica, amplificazione estrema e sperimentalismo tecnico. Reid evoca un mondo a sé attraverso un enseble da camera che, grazie ad archi, percussioni, arpa, pianoforte, flauto traverso, clarinetto basso e corno, crea un senso di meraviglia,mistero, suspense, paura e splendore. A contrasto, lo stridente irrompere dei beat di musica elettronica da discoteca e dell’amplificazione estrema in cui la brillantezza metallica dei suoni crea un brio irreale. Una miriade di stili musicali, in cui le note si susseguono senza soluzione di continuità, come fossero animate da una propria forza vitale, formando melodie in costante trasformazione, ma che concorrono a formare un lavoro riconoscibile ed unico, su cui si inseriscono una parte per soprano (Bibi) e una per mezzosoprano (Lumee). Reid ha così creato tre diversi mondi sonori: il primo sognante ed impressionistico; il secondo crudamente realistico e urbano; il terzo rappresentato da nuove forme musicali sperimentali che servono a rendere l’aspetto più duro della realtà. Un percorso straniante che parte dalla bellezza sognante del primo atto per arrivare alle atmosfere sempre più cupe della crescente consapevolezza di sé che Bibi acquisisce nel corso dell’opera, in cui la varietà musicale serve ad avvicinare un pubblico quanto più ampio possibile alla comprensione di qualcosa non necessariamente esperito dall’ascoltatore, nelle manifeste intenzioni della compositrice americana.