82° Maggio Musicale Fiorentino: “Lear”

Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – 82° Maggio Musicale Fiorentino
“LEAR”
Opera in due parti da William Shakespeare King Lear, Libretto di Claus H. Henneberg
Musica di Aribert Reimann
König Lear BO SKOVHUS
König von Frankreich FRODE OLSEN
Herzog von Albany DEREK WELTON
Herzog von Cornwall MICHAEL COLVIN
Graf von Kent KOR-JAN DUSSELJEE
Graf von Gloster LEVENT BAKIRCI
Edgar ANDREW WATTS
Edmund ANDREAS CONRAD
Goneril ANGELES BLANCAS GULIN
Regan ERIKA SUNNEGÅRD
Cordelia AGNETA EICHENHOLZ
Narr ERNST ALISCH
Bedienter LUCA TAMANI
Ritter DAVIDE SIEGA
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Fabio Luisi
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Calixto Bieito ripresa da Yves Lenoir
Scene Rebecca Ringst
Costumi Ingo Krügler
Luci Franck Elvin
Drammaturgia Bettina Auer
Allestimento dell’Opéra National de Paris

Prima rappresentazione a Firenze 
Firenze, 5 maggio 2019
Aribert Reimann è così scattante nel salire sul palco e nel correre alla ribalta per raccogliere i molti calorosi applausi, sorridente, mano nella mano con i cantanti del cast, che, vedendolo dalla platea è impossibile dargli i suoi ottantatré anni; eppure è nato nel 1936 ed ha iniziato alla fine degli anni Cinquanta a tenere concerti come pianista ed accompagnatore. Tra i tanti grandi cantanti con i quali ha collaborato bisogna citare Dietrich Fischer Dieskau, vale a dire colui che in un non piccolo repertorio, tra Lied e Opera, può essere considerato il più grande baritono della sua epoca; fu proprio Fischer Dieskau a suggerirgli e in un certo senso a commissionargli questo lavoro tratto dal Re Lear di Shakespeare che ha un grande ruolo protagonistico per baritono, del quale Fischer Dieskau è stato primo interprete assoluto e costante riferimento. La musica di Reimann, in un linguaggio novecentesco, atonale, che indaga e mette a nudo, ora con lacerante violenza, ora con tenerezza i sentimenti umani più esasperati, dall’eroismo prometeico del protagonista alla vigliaccheria più repellente dei personaggi che lo circondano, è sempre a servizio della drammaturgia e ha sempre un rapporto estremamente chiaro con il canto. La parola, le sue inflessioni si fanno canto, un canto teso, drammatico, in cui una vocalità difficile, a volte estrema, rispecchia stati d’animo altrettanto estremi. Non esiste melodia, non c’è un’aria e forse nemmeno passi che si possano definire ariosi, ma c’è il canto, non solo il declamato o il parlato intonato, canto nelle forme più diverse fino ai melismi e alla coloratura. Lear quindi è un’opera lirica in piena regola, in cui l’orchestra e le voci costruiscono un dramma di violenza, follia, sopraffazione e tradimento, ma anche di solidarietà, una bizzarra, commovente solidarietà tra emarginati e l’amore ritrovato tra un padre e una figlia, Lear e Cordelia, che suggella l’opera con l’unico timido brandello di melodia che si leva dall’orchestra. Calixto Bieito, regista celebre e discusso per l’indole dissacratoria e certe provocazioni spinte oltre il limite della gradevolezza, si rivela in questa produzione ottimo drammaturgo, dalla visione coerente, dal linguaggio potente e scabro senza ombra di compiacimento, che perfettamente si sposa con il linguaggio della musica. Scolpisce con rigore e crudeltà mai superflua i personaggi e illustra le situazioni in modo lucido, con un interessante gusto pittorico – si possono citare a tal proposito le due ‘pietà’ speculari dell’ultimo atto, Cordelia che raccoglie e abbraccia il corpo del padre vivo e Lear che successivamente compie il medesimo gesto sul corpo della figlia morta. La scena di Rebecca Ringst è una scatola aperta al proscenio fatta di assi di legno dipinto di nero; le assi del fondale sono incernierate al pavimento e sostenute dall’alto da cavi d’acciaio e nel corso dell’opera possono inclinarsi, suggerendo i tronchi di un bosco nelle scene nella brughiera, poi il fasciame di una nave nelle scene ambientate a Dover, fino ad adagiarsi sul pavimento. Le luci di Franck Elvin sono di fortissimo impatto drammatico, integrano la scarna scenografia e rendono pulsante lo spazio. Il costumista Ingo Krügler sceglie la scialba eleganza medio borghese di abiti formali di taglio più o meno contemporaneo, quasi a voler spogliare di ogni nobiltà i personaggi che li indossano, rivelando la trivialità delle loro mire.
Fabio Luisi dirige un’Orchestra in grande forma, in grado di illuminare le diverse pagine dell’opera con suono tagliente, precisione analitica e impressionante spettro dinamico. La violenza, la follia, lo smarrimento emergono dai colori orchestrali, ora lividi ora iridescenti, dando vita ad un’esperienza musicale ipnotica e angosciante. Il cast consegue nel complesso un ottimo risultato, con punte di particolare forza espressiva. Il protagonista Lear è Bo Skohvus, il quale non è né vecchio né cadente, anzi è notevolmente atletico, tuttavia riesce ad entrare nei panni del re in disarmo e in fuga dalla realtà in maniera credibile e con grande personalità di attore; il canto è ricchissimo di sfumature, sempre presente e sonoro, la resistenza nell’affrontare un ruolo lungo e dalla scrittura scomoda è ammirevole; un certo vibrato largo e la relativa debolezza dei gravi estremi passano decisamente in secondo piano. Agneta Eichenholz è una Cordelia dalla voce sopranile cristallina e flessibile, dai pianissimi eterei fino nella zona acuta e anche la sua figura ha un che di angelico; il suo personaggio riscatta la breve presenza in scena con la purezza del canto e dell’azione. Angeles Blancas Gulin ed Erika Sunnegard, Goneril e Regan, reggono una scrittura massacrante, che espone la voce senza pietà in tutti i registri, con declamato rabbioso, acuti tesi fino al grido, la seconda anche con passaggi fioriti di sapore straniante; hanno strumenti vocali pieni e sonori di notevole spessore e proiezione; le figure delle due figlie perfide emergono pienamente. Notevolissima è la prestazione di Andrew Watts, che deve dar vita ad un personaggio, Edgar, dalla vocalità del tutto particolare, che si esprime con accenti virili, in voce piena, quando è nel suo ruolo sociale e in voce di testa, come contralto, quando entra nel mondo dell’emarginazione e della ‘follia’; la sua resa del personaggio conquista anche scenicamente. Suo fratello Edmund è portato in scena con notevole personalità e impavida vocalità di tenore acutissimo da Andreas Conrad. Non ha uno strumento vocale particolarmente ragguardevole, ma è un interprete scenicamente molto incisivo Levent Bakirci come Conte di Gloster. Il Duca di Cornovaglia si avvale dello strumento tenorile solido e lucente di Michael Colvin; Frode Olsen, Derek Welton, e Kor-Jan Dusseljee portano in scena con sicurezza ed efficacia i loro personaggi, così come adeguati risultano Luca Tamani e Davide Siega nei loro piccoli ruoli. Ernst Alisch interpreta l’unico personaggio solo recitante, il matto, alter ego dalla saggezza stralunata di Lear, con voce e dizione tagliente e una bonarietà dai riflessi agghiaccianti, di grande impatto. Il pubblico reagisce con grande entusiasmo ed applaude l’intero cast, con particolare calore per Lear e per le sue tre figlie; grandi applausi riceve anche Fabio Luisi ed affettuose e lunghe ovazioni l’autore Aribert Reimann.