Hector Berlioz (La-Côte-Saint-André 1803 – Parigi 1869)
“Waverley”, ouverture
Larghetto, Allegro vivace
Durata: 11’ca
Scritta tra il 1826 e il 1828, questa ouverture, dedicata allo zio materno, Mons. le Colonel Marimion, ex combattente nell’armata di Napoleone, si ispira all’omonimo romanzo di Walter Scott, il cui protagonista è lo scozzese Edward Waverley, capo di una sfortunata rivolta contro gli Inglesi, domata a Derby. Il brano sinfonico, nella cui partitura sono anteposti due versi di Scott rivelatori del carattere dell’eroe: Dreams of love and Lady’s charms / Give place to honor and to arms (Sogni d’amore e fascini di donna / cedono il posto all’onore e alle armi), presenta lo schema bipartito della seicentesca ouverture francese con un tempo lento, Larghetto, a cui segue senza soluzione di continuità uno veloce, Allegro vivace. I due versi si possono riferire alle due parti dell’ouverture, in quanto il Larghetto iniziale in 3/4 sembra esprimere i sogni d’amore e i fascini femminili attraverso la melodia lamentosa delle viole e dei violoncelli (Es. 1), ai quali è affidato anche un tema di carattere nobile accompagnato dai contrabbassi e dalle viole in pizzicato. Il controcanto dei legni e l’uso dei timpani percossi dalle mazze di spugna oltre a rendere più cupo l’intero passo rivelano la grande maestria di orchestratore di Berlioz. Nell’Allegro vivace, in forma-sonata, il sentimento cede il posto alle armi, ben rappresentate dai due gruppi tematici di carattere marziale, mentre in alcuni passi emerge il virtuosismo orchestrale di Berlioz che, in quest’ouverture, ha ampliato l’organico con 4 fagotti, 3 tromboni e l’oficleide.
“Les Francs Juges”, Grande Ouverture H. 23d
Adagio sostenuto, Allegro assai
Durata: 13’ ca
Quest’ouverture, composta nell’autunno del 1826, può essere considerata la prima manifestazione dell’originalità di Berlioz nella tecnica orchestrale, non appresa dai suoi insegnanti, ma dalla viva esperienza come egli scrisse nei suoi Mémoires:
“I miei due maestri non mi hanno insegnato niente sulla strumentazione. Lesueur non aveva di questa arte che nozioni molto limitate. Reicha conosceva bene le risorse particolari della maggior parte degli strumenti a fiato, ma io dubito che abbia avuto delle idee molto avanzate in relazione al loro raggruppamento in grandi e piccole masse. […] Assistevo regolarmente a tutte le rappresentazioni dell’Opéra. Vi portavo la partitura dell’opera annunciata e la leggevo durante l’esecuzione. Fu così che cominciai a familiarizzare con l’impiego dell’orchestra e a conoscere l’accento e il timbro oltre all’estensione e al meccanismo della maggior parte degli strumenti. Questo paragone attento dell’effetto prodotto e del mezzo impiegato a produrlo mi fece anche scoprire il legame nascosto che unisce l’espressione musicale all’arte speciale della strumentazione, ma nessuno mi aveva messo sulla strada”.
Tale originalità, tuttavia, non fu immune dalle critiche di alcuni compositori tra cui Ignaz Moscheles, che la definì un crudele e sgarbato contrappunto, Mendelssohn, che parlò di un pezzo prosaico e barbaro e di orchestrazione confusa e grossolana, e Robert Schumann che, pur riconoscendo una certa originalità a Berlioz, definì lo stile del pezzo smisurato e ingenuo. D’altra parte lo stesso compositore si era reso conto che l’importanza data agli ottoni avrebbe suscitato molta meraviglia, come si evince da una lettera inviata al padre nel mese di maggio 1828 in cui si legge:
“Di solito i compositori impiegano questi strumenti [gli ottoni] solamente per rinforzare l’espressione delle masse, ma dando ai tromboni una melodia caratteristica eseguita da essi come solisti, mentre il resto dell’orchestra freme di sotto, ne risulta l’effetto mostruoso e nuovo che ha così sbalordito gli artisti”.
Su questo argomento, che gli stava particolarmente a cuore, Berlioz ritornò anche nei suoi Mémoires, dove si legge:
“Ero così ignorante allora del meccanismo di certi strumenti che dopo aver scritto il solo dei tromboni in re bemolle, nell’introduzione dei Francs Juges, temetti che presentasse enormi difficoltà di esecuzione, e andai, molto inquieto, a mostrarlo a uno dei trombonisti dell’Opéra. Questo, esaminando la frase, mi rassicurò completamente: «La tonalità di re bemolle è, al contrario, una delle più favorevoli a questo strumento, mi disse, e voi potete contare su un grande effetto per il vostro passo»”.
Nonostante le critiche dei colleghi l’ouverture riscosse un buon successo alla prima esecuzione, insieme ad altre sue composizioni, il 26 maggio 1828 in un concerto al Conservatorio da lui voluto per rendere famoso il suo nome agli occhi di Henriette Smithson della quale si era perdutamente innamorato. Egli stesso ricordò questo episodio nei suoi Mémoires:
“Avevo passato parecchi mesi in una specie di disperato abbrutimento di cui ho solamente indicato la natura e le cause, sognando sempre Shakespeare e l’artista ispirata, la fair Ophelia per la quale tutta Parigi era in delirio, paragonando con un senso di prostrazione la luce della sua gloria alla mia triste oscurità; quando rialzandomi infine, volli con uno sforzo supremo fare brillare fino a lei il mio nome che le era sconosciuto. Allora tentai ciò che nessun compositore in Francia aveva ancora tentato. Osai provare a fare eseguire al Conservatorio un grande concerto composto esclusivamente dai miei lavori. «Voglio mostrarle, dissi, che anch’io sono pittore!» […] Il mio programma conteneva le ouvertures di Waverley e dei Francs-Juges; un’aria e un trio con coro dei Francs-Juges; la scena Héroique Grecque e la mia cantata La Mort d’Orphée dichiarata ineseguibile dalla giuria dell’istituto”.
Dedicato all’amico Girard, questo lavoro, che avrebbe dovuto essere l’ouverture di un’opera in tre atti Lénor ou Les Francs-Juges su libretto di Humbert Ferrand, mai portato a termine, presenta la classica forma bipartita e una strumentazione raffinata ottenuta grazie ad un organico arricchito dalla presenza del controfagotto, di un secondo oficleide, dei piatti e della grancassa. Già nell’Adagio sostenuto introduttivo emergono le doti di grande orchestratore di Berlioz che stabilisce un netto contrasto tra un tema lamentoso costituito da un breve disegno discendente e un secondo di carattere solenne grazie anche alla scelta degli strumenti. Agli archi che intonano il primo tema si contrappongono, infatti, gli ottoni in una scrittura di grande effetto che si risolve in contrasti fonici e timbrici. Aperto da un tema fresco e leggiadro, l’Allegro assai rivela ancora una volta le doti di orchestratore di Berlioz che trasforma gli strumenti quasi in personaggi del dramma con gli archi, adesso investiti di una carica ottimistica, che si scambiano il ruolo con i legni ai quali è affidato un tema lamentoso. Dopo un suggestivo episodio orchestrale nel quali squilli di trombe annunciano vittoriose fanfare, l’ouverture si conclude in modo trionfante con la ripresa del tema iniziale nella solare tonalità di fa maggiore.
“Le roi Lear”, Grande ouverture per orchestra op. 4 H. 53
Andante non troppo lento, ma maestoso
Allegro disperato ed agitato
Durata: 15’ca
Composta a Nizza tra aprile e maggio del 1831, questa ouverture non tardò ad affermarsi nonostante la concorrenza delle tre più celebri ouverture, quella del Corsaire, quella del Benvenuto Cellini e il Carnaval romaine. Lo stesso Berlioz nei suoi Mémoires fece riferimento all’entusiasmo con cui essa fu accolta ad Hannover nel 1854 riportando le parole di ammirazione del giovane re che non mancava di assistere alle prove dalle 8 di mattina fino a mezzogiorno:
“È magnifico, signor Berlioz, è magnifico! La vostra orchestra parla, non avete bisogno di parole. Ho seguito tutte le scene: l’entrata del re nel suo consiglio, e la tempesta sulla brughiera e la detestabile scena della prigione, e i pianti di Cordelia! Oh! Questa Cordelia! Come l’avete dipinta! Come è timida e tenera! È straziante, è così bello!”
Nell’Ouverture, dedicata ad Armand Bertin, Berlioz non trattò il tragico contenuto dell’opera shakespeariana, ma volle mettere in evidenza due caratteri completamente opposti: quello violento e folle del re e quello dolce e tenero della figlia Cordelia. Ciò è ottenuto dal compositore grazie a una scrittura che accentua i contrasti timbrici e dinamici e grazie a ritmi spesso sospesi indicati in partitura con «ritenuto», «un poco ritenuto», «perdendosi» e «crescendo». Dal punto di vista formale l’Ouverture presenta una struttura bipartita con un’introduzione lenta, Andante non troppo lento, ma maestoso, in 4/4, di cui è protagonista un tema maestoso e solenne in stile recitativo esposto dagli archi (Es.2), al quale si contrappone un altro più agitato affidato ai legni, e con un Allegro disperato e agitato in forma-sonata in 2/2, tutto costruito sulle asimmetrie e i violenti contrasti ai quali si è accennato in precedenza. Alquanto singolare è l’effetto realizzato con il rullo dei timpani che annuncia la ripresa del tema principale dell’introduzione intorno alla misura 66 e, secondo quanto affermato dal compositore in una lettera del 2 ottobre 1858 al barone Donop, aveva lo scopo di ripristinare una prassi tipica della Corte francese. Nella lettera il compositore scrisse:
“Vi era la prassi nella Corte di Francia, ancora nel 1830 sotto Carlo X, di annunciare l’ingresso del Re nei suoi appartamenti (dopo la messa della domenica) al suono di un enorme tamburo che batteva un ritmo bizzarro in cinque tempi trasmessi tradizionalmente dai tempi forti ritardati. Ciò mi ha dato l’idea di accompagnare così con un effetto di timpani di questa specie l’ingresso di Lear nel suo consiglio, per la scena della divisione dei suoi Stati. Ho avuto l’intenzione di indicare la sua follia solo in mezzo all’Allegro, quando i bassi riprendono il tema dell’introduzione in mezzo alla Tempesta. Ci vuole un’orchestra di primordine per eseguire questa ouverture. Io non l’ho sentita dal mio ultimo viaggio ad Hannover; è il pezzo favorito del re”.
“Le Corsaire” op. 21
Allegro assai, Adagio sostenuto, Allegro assai
Durata: 8’ca
Il 19 gennaio 1845, in un concerto tenuto al Cirque Olympique a Parigi, Berlioz diresse personalmente la prima esecuzione della sua Ouverture de la Tour de Nice, ispirata all’omonima novella in versi di George Byron e ideata già nel 1831 durante il suo soggiorno romano a Villa Medici, lasciando interdetta la critica del periodo per l’originalità e le stranezze della musica, come si apprende da una recensione:
“È una composizione estremamente originale, piena di effetti fantastici e di capricci bizzarri. Si direbbe un racconto di Hoffmann. Ciò vi getta in un turbamento indefinibile, ciò vi tormenta come un cattivo sogno e riempie la vostra immaginazione di immagini strane e terribili. Sicuramente questa torre di Nizza è abitata oggi da centinaia di gufi e di aquile e i fossati che la circondano sono pieni di bisce e di rospi. Forse essa è servita da rifugio per briganti o da fortezza per qualche tiranno del Medioevo; forse qualche prigioniero illustre, qualche bella innocente e perseguitata; vi sono morti nelle angosce della fame o sotto il ferro dei carnefici. Voi potete supporre tutto e credere tutto quando sentite quei violini che stridono, quegli oboi che gracchiano, quei clarinetti che gemono, quei bassi che brontolano, quei tromboni che rantolano. L’Ouverture de la Tour de Nice è forse l’opera più strana e curiosa che abbia mai creato l’immaginazione di un musicista”.
L’Ouverture, sottoposta, in seguito, ad una lunga revisione, fu intitolata, prima The red rover, Corsair rouge dal racconto dello scrittore americano Fenimore Cooper e, infine, semplicemente Ouverture du Corsaire nella versione definitiva del 1855. Berlioz, che aveva diretto anche la seconda versione dell’ouverture l’8 aprile 1854 a Brunswick, da vivo, non ebbe modo di farla eseguire a Parigi, nonostante i successi riscossi in altri paesi Europei; di questo Berlioz si lamentò in una lettera del 18 aprile 1863 ai suoi amici Massart:
“La mia ouverture del Corsaire è eseguita dappertutto, io non l’ho, io, ascoltata che una sola volta. Le altre ouvertures, quella del Re Lear soprattutto, e quella del Benvenuto Cellini, sono eseguite spesso, e queste sono precisamente quelle meglio conosciute a Parigi”.
A livello macroformale la partitura è strutturata secondo lo schema Allegro–Adagio-Allegro, tipico delle ouvertures di Berlioz a partire da quella del Benvenuto Cellini, in quanto inizia con un accenno rapido all’energico tema dell’Allegro assai, che, conclusosi con un accordo di mi bemolle maggiore eseguito in pianissimo e affidato ai legni e ai primi violini divisi, introduce l’Adagio sostenuto; qui la scrittura, molto dolce e ariosa, si segnala per una certa immobilità, che contrasta con la vivacità dell’Allegro assai, il cui tema iniziale mostra nel rapido disegno di crome affidato ai violini, molto probabilmente, l’influenza di alcuni lavori di Weber, soprattutto delle ouvertures dell’Euryanthe e del Franco cacciatore. L’ouverture presenta, inoltre, una grande coesione tematica e formale soprattutto per il fatto che il tema dell’Adagio sostenuto è ripreso dai violini nella sezione centrale dell’Allegro.
“Il Carnevale romano” (Le carnaval Romain), ouverture op. 9
Saltarello, Andante sostenuto, Saltarello
Durata: 10’ ca
“Si tributò all’ouverture un successo esagerato e si fischiò tutto il resto con un accordo e un’energia ammirevoli. Comunque l’opera venne replicata per tre volte, dopodiché, Duprez, avendo creduto di dover abbandonare il ruolo di Benvenuto, l’opera scomparve dal cartellone e non vi riapparve che molto tempo dopo”.
Con queste parole, non prive di una certa amarezza, Berlioz avrebbe ricordato in seguito nei suoi Mémoires la fredda accoglienza riservata alla sua opera Benvenuto Cellini alla prima rappresentazione avvenuta all’Opéra di Parigi il 10 settembre 1838 sotto la direzione di Habeneck. L’opera, pur trovando in seguito tra i suoi estimatori Franz Liszt, che nel 1852 ne mise in scena una nuova versione approntata da Berlioz, non riscosse mai il successo sperato dal compositore francese che, tuttavia, aveva creduto in questa partitura forse troppo moderna per essere compresa ed eseguita in modo corretto nel 1838. Habeneck, pur essendo un grande direttore d’orchestra, non era riuscito, infatti, a superare alcune difficoltà tecniche che presentava il brillante Saltarello dell’atto secondo, come ricordò lo stesso Berlioz:
“Quando arrivammo alle prove con l’orchestra, i musicisti, vedendo l’aria accigliata di Habeneck, si ritirarono alla mia vista nel più freddo riserbo. Loro facevano il loro dovere tuttavia. Habeneck faceva male il suo. Egli non riuscì mai ad arrivare a cogliere la brillante velocità del Salterello danzato e cantato a piazza Colonna nel mezzo del secondo atto. I ballerini non riuscivano ad adattarsi al suo andamento strascicato, venendo a lamentarsi con me e io gli ripetevo: ‘Più presto! Più presto! Animate dunque!’. Habeneck, irritato, colpiva il suo leggio e rompeva la sua bacchetta. Infine, dopo averlo visto abbandonarsi a quattro o a cinque eccessi di collera simili, io finii per dirgli con un sangue freddo che lo esasperò: ‘Mio Dio, signore, voi potrete rompere cinquanta bacchette, cosa che non impedirà al vostro movimento di essere la metà più lento. Si tratta d’un Salterello’. In quel momento Habeneck si fermò e girandosi verso l’orchestra: ‘Dal momento che io non ho la fortuna di accontentare il signor Berlioz, disse egli, noi ci fermeremo qui per oggi, voi potete ritirarvi’. La prova si concluse così. Qualche anno dopo, quando io ebbi scritto l’ouverture del Carnevale romano il cui Allegro ha per tema questo stesso Salterello, che egli non era mai riuscito a far più veloce, Habeneck si trovava nel foyer della sala Herz la sera del concerto in cui doveva essere ascoltata per la prima volta questa ouverture. Egli aveva appreso che alla prova del mattino, l’assistente della guardia nazionale mi aveva tolto una parte dei musicisti, noi avevamo provato senza gli strumenti a fiato: ‘Bene, aveva detto tra sé, ci sarà qualche catastrofe nel suo concerto, bisogna andare a vederlo’. Presentandomi all’orchestra, in effetti, tutti gli artisti che avevano la parte degli strumenti a fiato mi attorniarono spaventati dall’idea di suonare davanti al pubblico un’ouverture che a loro era integralmente sconosciuta. ‘Non abbiate paura, dissi loro, le parti sono corrette, voi siete tutte persone di talento, guardate la mia bacchetta più frequentemente possibile, contate bene le pause e andrà’. Non vi fu un solo errore. Io lanciai l’allegro nel movimento vorticoso dei ballerini trasteverini; il pubblico gridò bis; noi ricominciammo l’ouverture; essa fu eseguita ancor meglio la seconda volta e rientrando nel foyer dove si trovava Habeneck un po’ deluso, io gli lanciai passandogli accanto queste quattro parole: ‘Ecco che cos’è!’. Non ebbe il coraggio di rispondere. Io non ho mai sentito più intensamente che in quell’occasione la felicità di dirigere da me stesso l’esecuzione della mia musica; il mio piacere raddoppiava al solo ricordo di ciò che Habeneck mi aveva fatto passare”.
Certamente il successo della prima esecuzione del Carnevale romano, avvenuta nella Sala Herz di Parigi il 3 febbraio 1844, rappresentò, anche per le difficoltà in cui maturò, una bella rivincita per Berlioz sia come direttore d’orchestra che come compositore. Egli era riuscito a dirigere il diabolico saltarello che per Habeneck aveva presentato delle difficoltà insormontabili e, inoltre, aveva recuperato una parte della musica di quel Benvenuto Cellini che era stato, a suo giudizio, ingiustamente accolto con eccessiva freddezza. Indicato, poi, da Berlioz come seconda ouverture da eseguirsi ad libitum prima del secondo atto del Benvenuto Cellini, il Carnevale romano è il frutto della delusione per lo scarso successo tributato ad un’opera in cui egli aveva molto creduto, e del tentativo di rilanciare alcuni brani del melodramma tra cui il duetto del primo atto di Cellini e Teresa, Oh Teresa, vous que j’aime plus que ma vie e il coro carnevalesco Venez, venez peuple de Rome.
Quest’ouverture si apre proprio con il tema del Salterello che, esposto dagli archi, è ripreso in canone prima dai legni e poi dagli ottoni. Il travolgente incipit cede subito il posto alla rappresentazione dell’amore con la melodia del duetto tra Cellini e Teresa tratta dall’atto primo dell’opera e qui affidata, prima, alla calda ed espressiva voce del corno inglese e, poi, ai violoncelli e alle viole da una parte e ai violini primi e secondi dall’altra che, riprendendo in canone il tema precedentemente esposto, rappresentano efficacemente le anime vibranti di passione dei due giovani amanti. Tre misure più animate, di cui sono protagonisti i legni e le percussioni in una strumentazione quasi bandistica, introducono il celeberrimo e travolgente saltarello che, tratto da alcune scene del secondo atto dove veniva rappresentata la festa del Carnevale in piazza Colonna, costituisce una testimonianza dello straordinario virtuosismo orchestrale di Hector Berlioz.