Venezia, Teatro La Fenice: “Turandot”

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e balletto, Stagione 2018-2019
TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti, Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, dalla fiaba teatrale omonima di Carlo Gozzi.
Musica di Giacomo Puccini Completamento del terzo atto di Franco Alfano
Turandot OKSANA DYKA
L’imperatore Altoum MARCELLO NARDIS
Timur SIMON LIM
Il principe ignoto (Calaf) WALTER FRACCARO
Liù CARMELA REMIGIO
Ping ALESSIO ARDUINI
Pang VALENTINO BUZZA
Pong PAOLO ANTOGNETTI
Un mandarino ARMANDO GABBA
Il principino di Persia MASSIMO SQUIZZATO
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Kolbe Children’s Choir
Direttore Daniele Callegari
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Maestro del Kolbe Children’s Choir Alessandro Toffolo
Regia Cecilia Ligorio
Scene Alessia Colosso
Costumi Simone Valsecchi
Light designer Fabio Barettin
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 17 maggio 2019
Nella recensione alla prima rappresentazione diTurandot a Francoforte, Adorno stroncò l’ultima fatica pucciniana, etichettandola, con sarcastica allusione al Parsifal – definito da WagnerBühnenweihfestspiel” (rappresentazione scenica sacra) – come “Bühnenweihfestspieloperette” (operetta drammatico-sacra per le scene) e nel contempo profetizzandone la rapida scomparsa dalle scene. In realtà l’opera di Puccini ha una sua degna collocazione nell’ambito della musica moderna, rivelando un linguaggio rinnovato e prendendo le distanze dalle convenzioni drammaturgico-musicali ottocentesche. Questo si riscontra sia in alcuni aspetti della vicenda – la protagonista è una donna che, diversamente dal ruolo femminile tradizionale, rifiuta l’amore – sia nella sequenza delle scene – la protagonista intona la sua aria di sortita solo a metà della rappresentazione. Ancora più accentuate sono le novità sul pino musicale. In particolare, la ricorrente citazione di una canzone popolare cinese, Mo-Li-Hua (Fiore di gelsomino), basata su una scala pentatonica dal sapore esotico, si svolge in un ambito tutt’altro che tonale, assumendo, di volta in volta, un diverso carattere timbrico-espressivo: due sassofoni contralti nel registro acuto – strumenti non ancora stabilmente in orchestra nel 1920, anno di inizio della composizione – la accompagnano dolcemente, quando un coro di ragazzi la propone per la prima volta, mentre riappare con pienezza sonora nel momento in cui Turandot nega la grazia al principe di Persia, intonata dall’intera orchestra, con il settore degli ottoni in speciale risalto o, ancora, nelle battute finali dell’atto primo, eseguita dai legni dell’orchestra, dagli ottoni della banda in scena, ma anche da campane tubolari, ben prima che questi idiofoni fossero in uso da parte dei compositori d’avanguardia. Con questa immensa tavolozza di raffinati e talora inusitati colori Puccini dimostra di essere aggiornato riguardo ai più recenti sviluppi della musica e ad autori come Schönberg, Debussy e Stravinskij – la ruvidezza sonora di certe pagine del Sacre caratterizza le prime battute dell’opera. Ma l’attualità di Turandot è data paradossalmente anche dal suo esserci stata consegnata dall’autore in forma di frammento, preannunciando un gusto diffuso in ambito post-modernista. Peraltro Turandot rimase incompiuta non solo a causa della morte di Puccini, nell’ottobre 1924, ma anche per il fatto che il lucchese si era bloccato di fronte a cruciali problemi drammaturgici: in particolare, quello di rappresentare in modo credibile il mutamento psicologico, in base al quale Calaf si consacra all’assassina della sua fedele Liù, di cui ha appena assistito al martirio. I costanti indugi nella composizione del finale dell’atto terzo avvalorerebbero questa tesi. Per questo nel 1926 Turandot andò in scena in una versione che si fermava a quel fatidico mi bemolle che conclude la scena della morte di Liù. Nondimeno le produzioni teatrali non possono non preferire a un frammento l’opera completata dal finale musicato, seppur con esiti non esaltanti da Alfano, per la semplice ragione che anche così riscuote da tempo enorme successo. Non potremo mai sapere cosa intendesse Puccini con l’annotazione “Poi Tristano”, posta su un foglio di schizzi. Nella concezione della regista Ceciia Ligorio l’opera pucciniana è la storia fiabesca del viaggio iniziatico di Calaf, sottoposto agli insidiosi enigmi di Turandot, cui si intreccia quello della coppia Liù-Timur. Ma anche la stessa crudele principessa sarà obbligata ad affrontare un suo percorso interiore verso il cambiamento. Particolare rilievo hanno, in questa messinscena, le maschere – ognuna delle quali si confronta con un suo doppio bambino –, viste, anche loro, alla ricerca di una propria dimensione umana, nel momento in cui rimpiangono “la casa nell’Honan”, identificata con una vita da trascorrere serena, anziché al servizio di un potere violento. L’elemento fiabesco domina le scene, ideate da Alessia Colosso, che campeggiano dentro una grande cornice di lacca blu, a sottolineare simbolicamente la fiaba e la stessa Cina, ma anche a marcare l’ambito della fantasia, dove si conservano – come in una laccata scatola cinese – messaggi segreti, reconditi desideri, paure e sogni; e dove la luna diventa la grande sciabola che mozza il capo al Principe di Persia, le ombre dei defunti circondano Calaf e lo provocano, le stelle si spengono sulla morte di Liù. Un’associazione di immagini, cui contribuisce con efficacia il disegno delle luci di Fabio Barettin: sulla scena domina la penombra finché, con la morte di Liù, alla fioca luce notturna subentra gradatamente quella del sole che sorge – allusione all’ultima parte di 8½ di Fellini. Un modo per tentare di costruire un travolgente finale di Turandot, in cui il mondo cupo, oscuro, congelato e freddo del passato viene invaso di luce, di bianco, e nel contempo i protagonisti assumono la loro propria identità con un lampo di gioia improvviso. Originale la scelta di Simone Valsecchi, che ha disegnato costumi in parte esotici (per i protagonisti della vicenda), in parte di foggia “normale”, tra cui quelli del popolo e del Mandarino (quest’ultimo munito anche di ventriquattr’ore). Sul versante musicale, Daniele Callegari riserva un’estrema cura alla concertazione, che si traduce in una perfetta sintonia tra orchestra, cantanti e coro, e in sonorità spesso anche vigorose, se non dirompenti, da cui l’ascoltatore viene completamente avvolto. Il direttore milanese, supportato da un’orchestra ineccepibile, riesce a mettere in valore la raffinata tecnica dell’orchestrazione – cui si è accennato sopra –, restituendo la profonda modernità di una partitura dove, alla semplicità narrativa di una storia fiabesca, si contrappone un’indiscutibile ricchezza sinfonica, grazia alla quale il pubblico viene immerso in atmosfere incantate e stranianti, senza perdere la piacevolezza dell’ascolto, tipica in Puccini, che conferma la sua enorme capacità di toccare immediatamente le corde dell’essere umano. Quanto ai cantanti Oksana Dyka è una principessa gelida ed altera nel gesto come anche nella voce dal timbro metallico e dal notevole volume, anche se alquanto forzata nel registro acuto. Il soprano ucraino si è, comunque, destreggiata con professionalità ed efficacia espressiva nell’ardua “In questa reggia”. Analogamente Walter Fraccaro (un generoso Calaf) ha affrontato questo ruolo, puntando sulla forza della propria emissione, timbricamente ibrida, e su una certa facilità negli acuti, più che sulle sfumature e le sottigliezze interpretative, come si è sentito anche in “Nessun dorma”, peraltro risolta con sicura prestanza vocale. Maggiormente sensibile, stilisticamente adeguata e omogenea nel timbro è risultata la Liù di Carmela Remigio, in “Signore, ascolta” come in “Tu, che di gel sei cinta”, quando la concezione registica le concede un estremo sussulto d’orgoglio, che la porta a minacciare Turandot con il pugnale con cui sta per uccidersi. Ben timbrato e convincente anche Simon Lim nei panni di Timur. Affiatato nell’insieme, ma anche abbastanza efficace nei singoli interventi il Trio delle Maschere: Alessio Arduini (Ping), Valentino Buzza (Pang), Paolo Antognetti (Pong). Ragguardevole l’Altoum offerto da Marcello Nardis. Autorevole il Mandarino di Armando Gabba. Una menzione anche per il breve intervento di Massimo Squizzato, quale Principino di Persia.. Ottima la prestazione – per intonazione, coesione e fraseggio – del Coro della Fenice e del Kolbe Children’s Choir, istruiti rispettivamente da Claudio Marino Moretti e Alessandro Toffolo.