Bologna, Teatro Comunale: “Turandot”

Bologna, Teatro comunale, Stagione 2018/19
TURANDOT”

Dramma lirico in tre atti, Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, dalla fiaba teatrale omonima di Carlo Gozzi.
Musica di Giacomo Puccini Completamento del terzo atto di Franco Alfano
Turandot  ANA LUCRECIA GARCIA
Altoum BRUNO LAZZARETTI
Timur ALESSANDRO ABIS
Calaf ANTONELLO PALOMBI
Liù FRANCESCA SASSU
Ping SERGIO VITALE
Pang ORLANDO POLIDORO
Pong PIETRO PICONE
Un mandarino NICOLÒ CERIANI
Il principe di Persia ANDREA TABOGA
Ancelle di Turandot ROSA GUARRACINO, MARIE-LUCE ERARD
Orchestra, Coro, Coro di Voci Bianche e Tecnici del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Valerio Galli
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Maestro del Coro  Voci Bianche Alhambra Superchi
Regia Fabio Cherstich

Ideazione Fabio Cherstich/AES+F
Video, scene e costumi AES+F
Progetto luci Marco Giusti
In collaborazione con la Scuola di Teatro di Bologna Alessandra Galante Garrone

Bologna, 31 Maggio 2019
Pecca certo di scarsa immaginazione chi vorrebbe che i registi si adeguassero sempre ai dettami del libretto e della tradizione nello svolgimento del proprio lavoro, e dimenticano altresì che l’essenza di una buona opera è capace di rimanere inalterata nei suoi valori, estetici o morali che siano, pur nella mutevolezza dei gusti e delle forme. Tuttavia, come spesso accade, la voce di questi conservatori fa da contrappeso salutare e necessario alle tendenze opposte, e allo stile di quei registi che si appropriano del testo in maniera così originale da apparire talvolta spregiudicata. Il teatro musicale, dove la faziosità in materia è quanto mai feconda perché indice di una strenua vitalità, non appartiene né agli uni né agli altri. Anzi, si potrebbe dire di esso che è come quel dio che Hermann Hesse immaginò nel suo Demian: un campo franco nel quale bene e male, così come ciascuno se li figura, giocano la loro partita e, pur affrontandosi alacremente, ottengono miracolosa sintesi.
Tuttavia esiste il rischio, che questa Turandot in scena al Comunale di Bologna corre, di negare l’unico principio che tiene insieme le fila di ogni possibile interpretazione di un testo, ossia quello di realtà. Ciò avviene particolarmente nell’atto terzo di questa messa in scena, atto già problematico di per sé giacché in esso il genio pucciniano si eclissa di fronte ad una conversione – quella dell’animo dell’algida Turandot – drammaturgicamente insostenibile. Andiamo per ordine: ciò che colpisce immediatamente di questo avanguardistico allestimento è l’uso massiccio di videoproiezioni, curate dal gruppo AES+F, che firma anche costumi e scene. Su di esse scorrono quasi incessantemente immagini di una Cina fantascientifica, percorsa da navicelle spaziali e da un enorme drago rosso che è la fluttuante dimora della principessa. Assieme a queste immagini digitalmente create, impressionanti per la loro qualità, scorrono anche quelle di corpi di uomini veri, manipolati da creature dai lunghi tentacoli, livide ed inespressive, sorta di “avatar” di Turandot. Compare poi un vasto repertorio di simboli, non facilmente decriptabili, molti associati a Turandot stessa, la quale subisce una serie di trasmutazioni (da polpo a Venere dalle mille teste a felina domata a bambolotto…). Il messaggio centrale che ne emerge è la psicosi di una donna in profondo conflitto con il corpo: il suo, in quanto si crede creatura celeste e non vuol concedersi a nessuno, e quello degli altri che la desiderano, sottoposti a crudeli torture. Questo apparato, abbagliante rispetto alla scena scarsamente illuminata e invasivo per le dimensioni, rende di primo acchito faticosa la fruizione dell’opera vera e propria.Veniamo dunque al terzo atto, nel quale, per tutta la durata del duetto tra Calaf e Turandot – uno dei più precari dell’opera – la regia, firmata da Fabio Cherstich, vuol tenere i due protagonisti lontani l’uno dall’altro. Forse pecchiamo anche noi di scarsa immaginazione, aspettandoci che laddove Calaf canta “I seni tuoi di giglio, ah! treman sul mio petto!” debba effettivamente stringersi al petto di Turandot, oppure che, se è un fatidico bacio a sciogliere finalmente il cuore della principessa, questo debba necessariamente materializzarsi sulla scena. Oppure ancora, laddove riteniamo che una Liù in camice d’infermiera, stramazzata a terra dopo essersi trafitta con una spada laser, non possa poi rialzarsi tranquillamente come un’Isotta di wagneriana memoria. Tutto ciò ci appare tanto più strano in quanto, per tutta la durata dello spettacolo, siamo stati bombardati da quei video in cui il corpo rivendicava d’essere riconosciuto. Dunque, se l’orrido bagno di sangue a cui la Cina assiste non è che il rituale folle di una donna in conflitto coi corpi, perché negare a quegli stessi corpi di avvicinarsi finalmente, offrendo redenzione simbolica alla storia e gratificando il pubblico d’un gesto tanto umano e tanto atteso, in una simile messa in scena ipertecnologica e straniante? L’unico congiungimento di corpi che ci è stato dato vedere è stato quello degli ultimi fotogrammi in cui uomini e donne seminudi sembravano indossatori d’una campagna pubblicitaria di intimo dai toni pastello.Le voci dei protagonisti non hanno saputo riscattare lo spettacolo da queste incognite: Antonello Palombi ha messo in scena un Calaf dimesso, intonato ma non eroico né lucente negli acuti. Ad esplicitare la fresca bellezza del personaggio, simbolo dell’amore sprezzante il pericolo, non ha giovato nemmeno il costume, che lo faceva sembrare una sorta di melanconico Che Guevara sperso sul set di Star Wars. Ana Lucrecia Garcìa, seppur fisicamente adatta al ruolo della regnante altera (sempre vestita di bianco come a sottolineare l’anestesia emotiva del personaggio) non è stata impeccabile nell’intonazione e, nonostante la notevole lama, ci è sembrata avara di sfumature e non elegantissima negli acuti, qui e là forzati. Altra incognita è stata la pressoché perpetua immobilità a cui sono stati costretti gli attori, ai quali non è stata data in tal modo alcuna possibilità di compensare con il gesto scenico eventuali pecche vocali. Della stessa fastidiosa fissità scenica ha sofferto tutto il cast: Ping, Pang e Pong, interpretati da Sergio Vitale, Orlando Polidoro e Pietro Picone, che costretti dietro un’altissima scrivania al principio del secondo atto si dolevano, in maniera non chiaramente udibile, della trucida dittatura di Turandot. Immobilizzato in una sorta di cabina pressurizzata anche Bruno Lazzaretti nei panni dell’Imperatore Altoum, dotato di emissione salda e penetrante. Scenicamente poco empatico il Timur interpretato da Alessandro Abis, che, pur avendo voce sicura ed adatta, è stato sfavorito all’occhio da un altro costume imbarazzante: alta uniforme bianca, occhiale da sole e ciabatte (quando lo abbiamo visto arrivare a sipario chiuso all’inizio dell’opera accompagnato da un’ infermiera, ci siamo chiesti se l’ambientazione fosse la Cina o una casa di cure). Autorevole il Mandarino di Nicolò Ceriani che proclamava con timbro scuro le severi leggi del regno reggendo un Ipad.Le sorti dello spettacolo sono state risollevate da Francesca Sassu, nei panni infermieristici di una giovane e ardente Liù, pudica ma determinata. La sua voce tonda e duttile alle sfumature del testo ci ha regalato i momenti più poetici di questa rappresentazione, come ad esempio nel “Signore ascolta” (atto primo) e più ancora nel “Su, principessa ascoltami” (atto terzo), in cui ha sfoderato un’intensità commovente, ed ha conferito spessore ad un personaggio che, col suo martirio d’amore, contribuisce alla giustificazione d’un finale altrimenti assurdo. Momenti come quelli donati da questa interprete sono ciò che vorremmo sentire sempre in un’opera e che la salvano di volta in volta dai tranelli della spericolata sperimentazione: la confessione sincera del sentimento, che poi è il fine per il quale andiamo a teatro e per il quale i teatri esistono.Molto meritevole il coro, sia quello adulto che quello di voci bianche, preparati rispettivamente da Alberto Malazzi e Alhambra Superchi. Il tutto tenuto assieme piuttosto bene dalla bacchetta di un pucciniano doc quale Valerio Galli, che ha dovuto tenere a bada un’orchestra, quella del Comunale, non sempre cavalleresca verso le voci e non sublime quanto a tavolozza di colori. Foto Andrea Ranzi-Studio Casaluci