“Il trovatore” al Teatro Real di Madrid

Madrid, Teatro Real, Temporada 2018-2019
“IL TROVATORE”
Dramma in quattro parti su libretto di Salvadore Cammarano, basato su El trovador di Antonio García Gutiérrez
Musica Giuseppe Verdi
Leonora MARIA AGRESTA
Manrico FRANCESCO MELI
Il conte de Luna LUDOVIC TÉZIER
Azucena EKATERINA SEMENCHUK
Ferrando ROBERTO TAGLIAVINI
Ruiz FABIÁN LARA
Ines CASSANDRE BERTHON
Un messaggero MOISÉS MARÍN
Orquesta y Coro Titulares del Teatro Real
Direttore Maurizio Benini
Maestro del Coro Andrés Máspero
Regia Francisco Negrín
Scene e costumi Louis Désiré
Luci Bruno Poet
Nuova produzione del Teatro Real in coproduzione con Opéra di Montecarlo e Royal Danish Opera di Copenhagen
Madrid, 13 luglio 2019
Nelle cronologie del Teatro Real di Madrid il primato del numero di rappresentazioni spetta a Rigoletto (387, fino a oggi), seguito da Aida (378); ancora un titolo verdiano completa la triade, e non è La traviata bensì Il trovatore (356 rappresentazioni, dal 16 febbraio 1854 fino a oggi, con le quattordici della stagione in corso). Per una serie non comune di ragioni è questa l’opera verdiana al tempo stesso più italiana nella struttura e più spagnola nell’ambientazione e nel gusto drammatico (assai più della Forza del destino o del Don Carlos). Neppure vent’anni separano El trovador di Antonio García Gutiérrez (1836), dalla prima assoluta del Trovatore verdiano (1853); e neppure un anno corre tra questa e la prima madrilena, quando Marietta Gazzaniga e Settimio Malvezzi diedero voce a Leonora e Manrico sul palcoscenico del neonato Teatro Real. Non è un dettaglio erudito, perché da quel momento in poi a Madrid esplose la febbre per Il trovatore cantato da artisti italiani: soltanto al Real si susseguirono trenta stagioni consecutive, fino al 1885, in cui il titolo restò in cartellone tutti gli anni (con due sole eccezioni nelle stagioni 1871-72 e 1880-81). Tra le molte coppie di soprano e tenore italiani scritturati si annoverano Rosina Penco e Gaetano Fraschini (1856-57 e 1866-67); Carlotta Marchisio e Mario (1863-64); Carolina Ferni ed Enrico Tamberlick (1869-1870); Celestina Boninsegna e Antonio Paoli (1906); Ester Mazzoleni e Bernardo De Muro (1918). La presenza di grandi tenori italiani, o di scuola prettamente italiana, ha dominato la scena madrilena, con un elenco di nomi davvero portentosi tra Otto e Novecento: Tamberlick è stato forse il Manrico più assiduo (sei stagioni tra 1866 e 1878), ma occorre menzionare anche Geremia Bettini nel 1857, Roberto Stagno nel 1872, Francesco Tamagno nel 1887. Dopo i settant’anni di chiusura (1926-1997), nella fase più recente della storia del Real Il trovatore è ritornato una sola volta, nel 2000, con José Cura nel ruolo protagonistico, mentre oggi il titolo si riaffaccia di nuovo grazie a un tenore italiano dalla marcata personalità come Francesco Meli, affiancato da un’altra artista italiana di grandissimo valore, il soprano Maria Agresta. Per l’occasione, inoltre, il Teatro Real ha voluto radunare un quintetto vocale di grande coerenza ed efficacia, tanto che – per una volta! – sembrano ritornate le grandi voci, capaci di disimpegnare bene tutte le difficoltà della celebre e temuta partitura. A concertare e dirigere è Maurizio Benini, che offre una lettura assai dinamica, staccando tempi rapidi, attento ad accompagnare i cantanti ma senza dimenticare di porre in evidenza le complessità strumentali che innervano tutta l’opera. È un peccato che questo Trovatore non segua la magnifica edizione critica di David Lawton (Chicago 1992), e dunque sia privo dei da capo delle cabalette, perché con gli interpreti di cui dispone l’esecuzione sarebbe risultata ancora più emozionante. Meli vuole incarnare un Manrico vocalmente squillante, generoso nelle puntature e nelle note coronate, abbondante nell’emissione; al tempo stesso, però, cura il più possibile il fraseggio, con una linea di canto eroica, in grado di arrotondare l’enunciazione di ogni parola, modulando a mezza voce o in pianissimo i passaggi più complessi. Pagine come «Mal reggendo all’aspro assalto», in duetto con Azucena, e «Ah sì, ben mio», sono capolavori di tecnica ed espressività; la cabaletta della pira soffre invece le conseguenze delle scelte generali dello spettacolo, sia perché manca il da capo sia perché la regia si premura di togliere importanza drammatica alla scena, connettendo il finale III direttamente con l’inizio della IV parte, senza che la famosa chiamata alle armi e la culminazione del do acuto abbiano rilevanza decisiva. Si tratta di un tentativo di stornare la concentrazione dell’attenzione su di una sola scena dell’opera, e ancor più su di una cabaletta e la sua puntatura finale, forse al fine di modernizzare la percezione del Trovatore; ma il risultato di tale riorganizzazione non convince, giacché quest’opera avrà sempre tre fuochi emozionali, corrispondenti ad altrettanti momenti solistici forti, cui non si può sottrarre importanza: «Il balen del suo sorriso» per il baritono, la scena finale della III parte per il tenore (con romanza e cabaletta che contemperano rispettivamente amor coniugale e amor filiale) e la preghiera «D’amor sull’ali rosee» per il soprano. Maria Agresta dà corpo a una Leonora dal canto sempre delicato ed elegiaco, con un’emissione attenta al fraseggio e alle mezze tinte. Il legato e il pianissimo sono magistrali, soprattutto nelle messe di voce dell’aria con cui si apre la IV parte: è il momento di maggior entusiasmo dimostrato dal pubblico nel corso della serata. Ludovic Tézier è il cantante dal porgere più nobile: il suo Conte de Luna brilla vocalmente per compattezza di registro, uniformità dell’emissione e acuti vibranti. Ekaterina Semenchuk è un’Azucena pienamente convincente, sia sul piano vocale sia su quello attoriale, anche se l’espressività di alcune frasi della canzone di sortita potrebbe essere più marcata. Ferrando ha la voce del basso Roberto Tagliavini, chiara, corretta, dalla dizione molto nitida. Insieme al Coro del Teatro Real, ottimamente preparato da Andrés Máspero, il quintetto vocale funziona dunque egregiamente poiché, al di là delle caratteristiche specifiche, ciascun componente vanta un’autentica “personalità vocale”, originale e individuale, la cui interazione genera da sola il miglior affetto teatrale e musicale. Nel libretto di Cammarano quasi nulla trapela del contesto politico d’origine, se non l’appartenenza urgeliana di Manrico («Insano temerario! / D’Urgel seguace, a morte / proscritto» lo apostrofa il Conte, ossia il Don Nuño di Gutiérrez, emblema dell’aristocrazia fedele alla corona): è riferimento a Jaime II de Urgel, ribelle contro Fernando I de Aragón nell’estate del 1413. Analogamente, l’allestimento curato da Francisco Negrín non ha nulla di iberico o di medioevale, centrandosi sulla potenza dei simboli (il fuoco, le croci nate dalla sovrapposizione di strisce luminose) e sugli incubi che non cessano di perseguitare Azucena; compaiono continuamente i fantasmi del piccolo Garzia (il rapito fratello minore del Conte), del piccolo Manrico e soprattutto della madre, la zingara condannata al rogo. La scena è data da un piano inclinato, che all’occorrenza si suddivide inspazi o delimita una stilizzata torre quadrangolare. La regia si rivela molto funzionale alla partitura, probabilmente perché alla base è un’attenzione costante ai particolari del libretto. È quella «potenza irresistibile» che lo stesso Verdi seppe scorgere nel dramma spagnolo, e che determina in un’esecuzione concentrata sull’espressività musicale uno dei migliori successi della stagione madrilena.   Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid