Torino, Teatro Regio, stagione d’opera 2018/19
“PORGY AND BESS”
Dramma in tre atti e nove quadri su libretto di George Gershwin, Ira Gershwin, DuBose e Dorothy Heyward dal dramma “Porgy” di DuBose e Dorothy Heyward
Musica di George Gershwin
Porgy ALVY POWELL
Bess MORENIKE FADAYOMI
Sporting Life CHAUNCEY STOKES
Serena SIMONE PAULWELL
Maria ALTEOUISE DE VAUGHN
Jake JOHN FULTON
Clara MEROË KHALIA ADEEB
Robbins ERRIN BROOKS
Mingo STEVEN MYLES
Peter TAIWAN NORRIS
Annie JEANNETTE BLAKENEY
Lily ALTEOUISE DE VAUGHN
La donna delle fragole ALAINA BROWN
L’uomo dei granchi BERNARD HOLCOMB
Jim DERRELL ACON
L’impresario delle pompe funebri PATRICK BLACKWELL
Nelson JOHN-CHRISTOPHER ADAMS
Scipio LOUIS DAVIS
Un detective RICHARD CORDOVA
Due poliziotti ERIK KULKA, PATRIK WEINRAUCH
Orchestra del Teatro Regio di Torino, coro del New York Harlem Theatre
Direttore artistico e musicale William Barkhymer
Regia Baayork Lee
Scene Reinhard Scott
Costumi Christina Giannini
Direttore d’orchestra associato e maestro del coro Richard Cordova
Produzione New York Harlem Theatre
Torino, 6 luglio 2019.
“Porgy and Bess” continua a sembrare una sorta di unicum della storia dell’opera tanto da farne discutere la stessa collocazione nel genere. Definita dall’autore “an American folk-opera”, la sua posizione è a lungo incerta fra autentica opera lirica, musical o qualche cosa di ibrido come sembrava indicare la stessa definizione dell’autore. Oggi si può affermare il pieno diritto di cittadinanza del lavoro di Gershwin nell’ambito dell’opera lirica e di considerarla un’affascinante tessera di quello sfuggente e caleidoscopico mosaico che è l’opera lirica fra le due guerre mondiali. A guardare con attenzione – almeno a parere dello scrivente – anche la presunta unicità di “Porgy and Bess” sembra sfumarsi riconoscendole invece come essa rispecchi alcune linee centrali nella produzione lirica di quegli anni. Sul piano drammaturgico la connotazione locale e un po’ bozzettistica è a ben vedere puramente superficiale mentre le tematiche profonde e il modo in cui sono narrate non sono troppo dissimili da quelle di molto teatro contemporaneo europeo. Massimo Mila parlò per l’opera di “realismo temperato dalla pietà e dall’affetto” ossia “La formula artistica del Boris”; personalmente vi trovo invece moltr somiglianze con il coevo teatro di Janáček e per certi versi anche con quello di Šostakovič. Anche il lavoro musicale segue una linea ben affermata in quegli anni quale la volontà di rinnovare il linguaggio classico recuperando forme e modi della tradizione popolare e folklorica. Questa prassi iniziata in Russia già nel XIX secolo – e Gershwin era figlio di immigrati russi, dato da non trascurare – stava vivendo tra le due guerre la sua massima fortuna specie nei paesi dell’Europa centro-orientale – Bartók, Kodály, Enescu – ma che in forme più o meno simili ritroviamo dalla Spagna di De Falla alle periferie sovietiche intente a ricostruirsi un’identità culturale. Quello che distingue il lavoro di Gershwin da quello dei colleghi europei è il mondo musicale cui è rivolta l’attenzione. Se le tradizioni folkloriche dell’Eurasia risultano in qualche modo famigliari perché parte di una koiné a cui tutti in qualche modo apparteniamo, la realtà musicale degli Stati Uniti e in specie delle sue anime più vitali ha origini e sviluppi storici totalmente diversi. Figlia dell’Africa profonda – in specie dell’area maliana e guineana –, la tradizione musicale “nera” d’America si è impiantata nelle colonie d’oltreatlantico come conseguenza della tratta degli schiavi. Trasportato dal “Mali al Mississippi” – per citare l’intenso e commosso omaggio documentaristico di Martin Scorsese al jazz e alla sua storia –, questo retaggio ancestrale ha subito l’influenza della cultura europea delle élites bianche e la profonda suggestione del misticismo cristiano – che nei dominions britannici è stato acquisito con profonda convinzione a differenza di quanto avvenuto nel mondo coloniale francese e spagnolo dove è rimasto superficiale spolverata su una spiritualità sostanzialmente animista e pagana – dando luogo a una storia musicale che dagli spiritual arriva al jazz propriamente detto totalmente originale rispetto alle dinamiche del Vecchio mondo. Questa musica giunta in Europa con i soldati americani venuti a combattere nella grande guerra ha sedotto – Ravel, Krenek – o sconvolto gli europei ma ha mantenuto il suo esotismo che rende apparentemente ancora così particolare l’opera di Gershwin la cui linea evolutiva pare invece inserirsi pienamene nella temperie del tempo.
Il Teatro Regio, per mettere in scena l’opera, si affida al New York Harlem Theatre che di questo repertorio è una sorta di tempio consacrato al mantenimento della più nobile tradizione. Lo spettacolo è molto fedele al libretto, curato nei minimi dettagli e con quel tocco oleografico che un’opera come questa naturalmente richiede. Eccoci nei luoghi archetipici del sud statunitense con le case di legno che circondano una strada di paese, il porticciolo con le antenne delle barche da pesca, le albe e i tramonti dai colori vividi di una natura sempre dominante. La recitazione curatissima e la perfetta conoscenza dei ruoli di tutti gli interpreti portano a una totale identificazione fra interprete e personaggio e rendono lo spettacolo di una naturalezza rara da trovare su un palcoscenico teatrale.
Il versante musicale presenta di contro qualche lacuna perché compagnie di questo tipo garantiscono una professionalità e una conoscenza stilistica assoluta ma difficilmente possono garantire la qualità dei singoli interpreti che si potrebbe avere con un cast costruito ad hoc. Resta per altro il dubbio se abbia senso valutare scritture vocali come quelle di quest’opera secondo i parametri di giudizio che applichiamo abitualmente al repertorio più tradizionale.
Vocalmente i due cantanti più convincenti sono stati gli interpreti dei due ruoli contrapposti di Serena e Sporting Life. Lei – Simone Paulwell –, dotata di una voce ampia, robusta, ben timbrata, con acuti pieni di suono, regge con sicurezza vocale e imperiosa intensità emotiva la grande scena del I atto “My man’s gome now” e in tutta l’opera rende bene la personificazione di una fede sincera ma spinta fino al fanatismo. Suo perfetto contraltare lo Sporting Life di Chauncey Packer, tenore leggero, agilissimo e di buono squillo sempre retto da un fraseggio mercuriale; il suo personaggio è fra i più interessanti dell’opera: criminale matricolato e seducente imbonitore ma anche coscienza razionale della comunità contrapposta al fanatismo di Serena (“It ain’t necessarily so”) e alle superstizioni della folla. Una sorta di ibrido fra Loge e Mefistofele in salsa paesana e con una voce che non sarebbe impropria per entrambi se per il diavolo si opta quello contemporaneo del “Ognenny angel” di Prokof’ev.
Alvy Powell nel ruolo del titolo è autore di una prestazione bifronte. La voce è abbastanza anonima come timbro e colore e manca spesso di proiezione ma la ricchezza dell’accento e la totale identificazione con il personaggio e le sue sofferenze quasi compensano i limiti vocali. Più classicamente impostata la Bess di Morenike Fadayomi che può contare su un timbro vellutato, su un’emissione morbida e femminile, su notevole personalità scenica e su un physique du rôle perfetto per la parte, quella di una donna ancora avvenente e sensuale ma che comincia a sentire lo scorrere del tempo come lei stessa confessa nella scena con Crown all’isola di Kittiwah. In “Summertime”, brano talmente celebre da vivere una vita propria e da fornire ogni sorta di suggestioni, Meroë Khalia Adeeb non reggerà il confronto con alcune interpreti storiche ma canta molto bene e con una bella voce impostata da soprano lirico riconducendo giustamente il brano alla sua dimensione operistica di cui la sua stessa fortuna lo ha in parte privato. La differenza timbrica fra le più svettante Adeeb e la vocalità più mordida e centrale della Fadayomi rendeva inoltre bene la differenza emotiva fra le due riprese del brano.
Fin troppo rozzo e sgraziato il Crown di Darren Stokes dalla voce ingolata e dall’emissione diseguale; vocalmente spesso censurabile ma di strepitosa verve scenica la Maria di Alteouise De Vaughn, mentre mostra una buona presenza vocale il Jake di John Fulton. Perfettamente funzionali allo spettacolo le numerose parti di fianco mentre non sempre inappuntabile la prova del coro. L’orchestra del Regio suona con notevole brillantezza confermando una particolare predisposizione per la musica del Novecento già riscontrata in altre produzioni.