Torre del Lago (LU), Gran Teatro “Giacomo Puccini”– 65° Festival Puccini
“LA BOHÈME”
Opera in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal romanzo “Scenès de la vie de bohème” di Henri Murger.
Musica di Giacomo Puccini
Rodolfo STEFAN POP
Mimì ANGELA GHEORGHIU
Marcello PIERLUIGI DILENGITE
Musetta ELISABETTA ZIZZO
Schaunard DANIELE CAPUTO
Colline DAVIDE MURA
Benoît CLAUDIO OTTINO
Alcindoro ALESSANDRO CECCARINI
Parpignol MARCO VOLERI
Sergente dei doganieri FRANCESCO LOMBARDI
Un doganiere SAMUELE GIANNONI
Orchestra, Coro e Coro delle Voci Bianche del Festival Puccini
Direttore Mārtinš Ozolinš
Maestro del Coro Roberto Ardigò
Maestro del Coro delle Voci Bianche Viviana Apicella
Regia Alfonso Signorini
Scene e costumi Leila Fteita
Light designer Valerio Alfieri
Allestimento Fondazione Festival Pucciniano
Torre del Lago, 10 agosto 2019
Torna a Torre del Lago l’allestimento de “La bohème” curato da Alfonso Signorini e Leila Fteita, l’uno alla regia, l’altra all’apparato creativo (scene e costumi). Benché vi siano spesso perplessità sul prestito di certi personaggi del jet set all’opera e al teatro, occorre riconoscere che la regia di Signorini funziona: la drammaturgia musicale (in quest’opera molto precisa) viene per lo più rispettata, creando momenti di bella intesa tra occhio e orecchio, senza tradire troppo il libretto. Forse il secondo quadro è quello che desta più perplessità, per una certo senso di smarrimento del coro, ma, d’altro canto, mette bene in luce i solisti, che sovente in questa scena si confondono troppo nel generale marasma del Momus. L’apporto della Fteita, invece, non appare del tutto positivo, giacché tenta di rispettare il libretto cercando innovazioni che paiono forzate: la soffitta – dominata da una scala discendente – si affaccia su dei tetti di Parigi troppo posticci ed ingenui per una produzione di tal portata; ma soprattutto, la dogana cittadina del terzo quadro diventa una staccionatina da cortile, inspiegabilmente, a questo punto, controllata da due rappresentanti delle forze dell’ordine; tutto l’inizio del quadro perde senso, come le lattaie che entrano e cantano al pubblico le loro battute, pensate invece per i doganieri che, da parte loro, non controllano i panieri. I costumi, invece, sono tradizionali, ma senza alcun guizzo, nemmeno in quello di Musetta del secondo quadro. Peccato. Promosse le suggestive luci di Valerio Alfieri, tranne che nella seconda parte dell’ultimo quadro, durante il quale due occhi di bue puntano fissi su Mimì, anche quando a cantare sono tutti gli altri in scena – trovandosi così nell’ombra. La ragione di tale scelta ci è ovviamente ignota, ma è più che naturale che si pensi a un “omaggio” alla protagonista: a cantare il ruolo principale, infatti, abbiamo Angela Gheorghiu, leggendaria tanto per il suo straordinario talento scenico e canoro quanto per il suo volitivo protagonismo e la personalità “difficile”. Pettegolezzi a parte, sentir cantare la Gheorghiu è, ancora oggi, un piacere: la lunga e impegnativa carriera non hanno troppo intaccato i colori strepitosi della sua voce, la linea di canto e la dizione d’antan. Certo l’estensione non è più quella di un tempo, l’intonazione nella zona acuta mostre incertezze, ma l’eleganza del fraseggio e la naturale fluidità della linea di canto sono innegabili. Il soprano romeno ha, inoltre, negli anni, sviluppato la sua già naturale intelligenza scenica, per cui non vi è un momento in cui esca dal personaggio: lo sguardo, il gesto, sono tutti collaudatissimi; gli unici momenti nei quali emerge l’interprete sono quelli in cui si prende le naturali libertà che una diva di questo calibro si arroga: è evidente che in “Sì, mi chiamano Mimì” a dirigere l’orchestra sia lei, e non il Maestro Mārtinš Ozolinš, che pure fa un buon lavoro con l’orchestra, con gli interpreti e con il coro. Ma è tutto sommato corretta anche questa permissività nei confronti della Gheorghiu: piuttosto che creare irritanti discrasie, col rischio di corrompere la riuscita dell’aria, fa bene Ozolinš a seguire la cantante nel suo rubato continuo. Non sarà quello che risulta da partitura, ma in fin dei conti funziona, così come funzionano le molte battute che la Gheorghiu recita anziché cantare, per colorare di maggiore verismo il ritmo delle scene (nel secondo quadro addirittura saluta gli amici di Rodolfo): in questo modo si garantisce la buona riuscita dello spettacolo e si dà modo all’interprete di personalizzare il ruolo senza allontanarsi troppo dalle intenzioni del compositore e dei librettisti – giacché l’interprete in questione ha comunque una grande preparazione e consapevolezza del repertorio. A fornire una prova musicalmente quasi perfetta, per coloro che assistano allo spettacolo con la partitura tra le mani, ci pensa comunque Stefan Pop, nella parte di Rodolfo: per il tenore romeno è evidentemente emozionante trovarsi faccia a faccia con una delle icone della musica del suo paese, ma questo, piuttosto che censurarne l’apporto, fa da chiaro sprone a un’interpretazione partecipatissima e di altissimo livello musicale. La già celebrata vocalità tonda e pulita del tenore lirico spinto qui si accompagnano a una cura dell’intonazione maggiore rispetto ad altre occasioni, che si nota soprattutto negli acuti svettanti. Il fraseggio, anche se durante il primo quadro è inficiato da una certa forzatura, nel terzo mostra una bella gamma di sfumature; la linea di canto è aderentissima al ruolo, e garantisce a Pop una giusta ovazione finale da parte del pubblico, che sembra preferirlo anche alla diva connazionale – la quale, da parte sua, è in totale sintonia col più giovane collega, in scena come fuori: lei lo applaude senza remore, lui la “adora” letteralmente. Sottolineare questi aspetti non è frivolité d’accatto: un’intesa tale coinvolge lo spettatore, rende più credibile l’interpretazione, consente ai cantanti anche di modellare reciprocamente le linee vocali dei propri personaggi. Anche il resto del cast, tuttavia, ci ha fornito prove di alto livello: la prima è senz’altro quella di Elisabetta Zizzo, giovane soprano catanese dalla vocalità omogenea in tutti i registri. Anche da un punto di vista teatrale la Zizzo è coinvolta, credibile, misurata. Lo stesso si può dire dello Schaunard di Daniele Caputo e del Colline di Davide Mura: li contraddistinguono intonazione corretta e vocalità belle ed espressive. Più alterno il Marcello di Pierluigi Dilengite, sia per una certa incertezza d’intonazione, sia per una linea di canto discontinua; anche scenicamente sembra meno presente dei suoi colleghi, soprattutto in quel secondo quadro che dovrebbe vederlo ribollire di gelosia e passione. Gustosi gli apporti di Claudio Ottino (Benoît) ed Alessandro Ceccarini (Alcindoro). Completavano positivamente il cast: Marco Voleri (Parpignol), Francesco Lombardi (sergente dei doganieri), Samuele Giannoni (doganiere). Riuscita anche la performance vocale del Coro, potente, preciso e ben caratterizzato nei suoi nuclei costitutivi; un plauso anche ai ragazzi del Coro delle Voci Bianche: sonori e musicali, non si sono lasciati minimamente intimidire dai “grandi”. Il pubblico, dopo più di tre ore di spettacolo (dovuto anche a un’ora secca di intervalli), tributa applausi convinti a questa recita, che, in effetti, può ben dirsi in linea con le aspettative che la solida fama del Festival Pucciniano ha l’onere e l’onore di soddisfare. Foto Lorenzo Montanelli