Festival Donizetti Opera di Bergamo 2019: “Pietro il Grande kzar delle Russie”

Bergamo, Teatro Sociale, Festival Donizetti Opera 2019
“PIETRO IL GRANDE KZAR DELLE RUSSIE”
Melodramma burlesco di Gherardo Bevilacqua Aldobrandini
Musica Gaetano Donizetti
Edizione critica a cura di Maria Chiara Bertieri
Pietro il Grande ROBERTO DE CANDIA
Caterina LORIANA CASTELLANO
Madama Fritz PAOLA GARDINA
Annetta Mazepa NINA SOLODOVNIKOVA
Carlo Scavronski FRANCISCO BRITO
Ser Cuccupis MARCO FILIPPO ROMANO
FirmanTrombest TOMMASO BAREA
Hondedisky MARCELLO NARDIS
Notaio STEFANO GENTILI
Orchestra Gli Originali
Coro Donizetti Opera
Direttore Rinaldo Alessandrini
Maestro del Coro FabioTartari
Regia, macchinari e scene Ondadurto Teatro – Marco Paciotti, Lorenzo Pasquali
Costumi K.B. Project
Luci Marco Alba
Nuovo allestimento e produzione della Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo
Bergamo, 23 novembre 2019
Pietro il Grande è lo spettacolo più divertente, accurato e coerente di tutto il festival Donizetti Opera 2019: bene diretto e cantato e recitato, è tradotto in termini visivi con molta intelligenza e vivacità. A volte occorre attendere anni, ma alla fine è possibile assistere a un’opera comica (anzi, «melodramma burlesco», come volle chiamarlo Donizetti) senza volgarità gratuite o indebite sovrapposizioni. L’entusiasmo dimostrato dal pubblico conferma l’impressione di essersi imbattuti in un piccolo capolavoro di unità stilistica. Conosciuto anche con titolo alternativo Il falegname di Livonia, Pietro il grande kzar delle Russie fu rappresentato il 26 dicembre 1819 al Teatro di San Samuele di Venezia, quando Donizetti aveva appena compiuto ventidue anni e soltanto da uno praticava il teatro musicale. A due secoli esatti di distanza può dunque scattare il congegno #Donizetti200, progetto tanto semplice quanto geniale, che consiste nel recupero delle opere donizettiane a duecento anni dalla loro prima rappresentazione. Il ventenne Donizetti portò a Venezia molte suggestioni della Gazza ladra, andata in scena alla Scala nella primavera del 1817: il rullare del tamburo militare nella sinfonia ne è solo la prima citazione, ma poi tutta l’opera si sviluppa come vicenda parallela (assai meno cupa) a quella di Ninetta. Grazie allo spiritosissimo libretto del marchese Gherardo Bevilacqua Aldobrandini si apprezza la storia del falegname Carlo, orfano ma in realtà fratello della zarina, che Pietro il Grande identifica e accoglie nella sua famiglia, consentendo che sposi la fanciulla che ama, sebbene figlia di un nemico della patria. Il nerbo comico del libretto e della musica è nel magistrato del villaggio, Ser Cuccupis, l’equivalente del Podestà della Gazza ladra, ma molto più spassoso: opportunista e servile, nella sua inettitudine non capisce mai nulla di quanto sta accadendo, però si compiace di esprimersi con un gergo giuridico astruso, citazioni classiche e brocardi medioevali. In realtà, anche altri personaggi sono fortemente caratterizzati sul piano linguistico, come Madama Fritz, la locandiera filantropa innamorata di Carlo, che parla con gli stilemi del melodramma tragico, o il Coro del tribunale, che cita Metastasio per stravolgerlo («Siam navi all’onde algenti […] tutta la vita è Curia», in cui l’aria dell’Olimpiade si trasforma in rassegnazione al garbuglio legale). Il sestetto del II atto, successivo al disvelamento dell’identità di Annetta («Oh! colpo! ohimè! qual fremito»), dà forma alla tipica scena di stupore, ma oltre alle movenze rossiniane è interessante notare l’originalità con cui Donizetti dipana e articola le sezioni. Insomma, accanto a molto Rossini e Mozart si percepisce un influsso distinto (il maestro Mayr) che presto avrebbe condotto Donizetti a un percorso di piena autonomia. Rinaldo Alessandrini, alla guida del complesso Gli Originali (quasi un titolo donizettiano …) è come sempre vigoroso e cristallino; lo spettatore si accorge di come i cantanti si sentano a loro agio e possano dare il meglio di sé. A cominciare naturalmente da Roberto De Candia, interprete ideale di Pietro il Grande, per sicurezza, dignità e serenità della linea di canto, sin dalla sontuosa cavatina, poi nella contegnosa interazione con gli altri personaggi, fino all’effusione paternalistica del finale. Al tempo stesso altero e dimesso, il falegname Carlo richiede un tenore che abbini il belcanto di rossiniana eredità a un lirismo più d’impeto: Francisco Brito sopperisce con una tecnica molto buona la scarsità di armonici della voce, anche se giunge alla virtuosistica aria del II atto con un po’ di stanchezza. Donizetti volle che la voce femminile più importante fosse quella della locandiera, Madama Fritz; in questa edizione Paola Gardina ne veste i panni con il giusto brio e la puntuale esagerazione comica. La voce di questo soprano, di volume non grande, è molto pregevole, soprattutto nell’aria di disperazione che precede il finale (in cui rivela interessanti possibilità di vocalista rossiniana). Il magistrato del villaggio, Ser Cuccupis, è interpretato da un autentico baritono buffo della tradizione italiana, Marco Filippo Romano, che conta su un’emissione ferma, accenti pungenti, perspicacia nella recitazione, senza mai affettare i soliti atteggiamenti di chi vuol essere comico. Cantante dalla carriera ormai consolidata, ha tutte le caratteristiche per diventare un notevole Don Bartolo, Don Pasquale o Don Magnifico. Annetta, la figlia del defunto ribelle Mazepa e fidanzata di Carlo, è Nina Solodovnikova, soprano acuto con voce gentile, anche se ogni tanto il timbro ha ancora qualche piccola acerbità. Completano la compagnia in modo efficacissimo il soprano Loriana Castellano come Caterina, sposa dello kzar, il basso Tommaso Barea nel ruolo dell’usuraio Firman, il tenore Marcello Nardis come Hondedisky, miles gloriosus simile a Belcore, e il basso Stefano Gentili come Notaio. Lo spettacolo di Marco Paciotti e Lorenzo Pasquali – direttori della compagnia Ondadurto Teatro – è un’inesauribile delizia per gli occhi: colori sgargianti, costumi surreali, luci caleidoscopiche e girandole di figure geometriche che si combinano e trasformano, attorniate da macchinari mobili (come il desco del falegname o l’imponente tribuna del magistrato) necessari a raccontare la vicenda. L’idea principale è ambientare una storia folklorica del XVIII secolo nella Russia delle avanguardie, con ammiccamenti all’astrattismo e alla poetica rivoluzionaria di Majakovskij. È notevole e beneaugurante che questa produzione costituisca il debutto di Ondadurto nel teatro musicale; magnifici anche i costumi del gruppo K.B. Project, del tutto coerenti con la scenografia, e perfette le luci di Marco Alba nel far risaltare le differenti temperature emotive della pièce. Tra pose goldoniane («Son chi sono») e filantropica albagia, Pietro incarna – forse con un certo ritardo sul ritmo della Storia – l’autocrate illuminato che ambisce governare tutti i sudditi come figli; nell’ambito della storia del melodramma italiano, comunque, è quell’elemento garante della giustizia che manca all’atmosfera tragica e oppressa della Gazza ladra, in cui solo il caso determina lo scioglimento lieto della vicenda. In Donizetti, invece, la musica promana da una fiducia, giovanilmente ingenua, nell’ideale del buon governante: «È re chi ognor politico / internamente vede; / è padre chi provvede / l’oppressa umanità».   Foto Gianfranco Rota © Festival Donizetti Opera