Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2019-2020
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Marco Angius
Maurizio Azzan: “Breaking Walls Down”
Richard Strauss: Intermezzo in do minore per “Idomeneo” di Mozart
Wolfgang Amadeus Mozart: Sinfonia n. 41 in do maggiore kv 551 “Jupiter”
Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 6 in fa maggiore op. 68 “Pastorale”
Venezia 9 novembre 2019
Siamo giunti al terzo appuntamento della Stagione Sinfonica 2019-2020 del Teatro La Fenice, che vede tra i suoi temi portanti la musica di Ludwig van Beethoven, in occasione del duecentocinquantesimo anniversario della nascita del sommo artista, con l’esecuzione della quasi totalità delle Sinfonie e di altre composizioni. Il programma del concerto, svoltosi al Teatro Malibran, abbracciava un ampio arco temporale, spaziando dal tardo Settecento alla Contemporaneità. Ad eseguirlo era chiamato il direttore ideale: Marco Angius, considerato un punto di riferimento per quanto riguarda la divulgazione e l’interpretazione della nuova musica, a partire dalle avanguardie post-weberniane, che si è imposto anche nel repertorio tradizionale, di cui offre una lettura anticonvenzionale, in base ad una visione inevitabilmente influenzata dal presente. Nella concezione del maestro, infatti, il passato è irraggiungibile e nessun approccio filologico ad una determinata partitura può restituircene l’autenticità: ogni composizione – aldilà del testo di cui disponiamo – è immanente e, si può dire, anche incompiuta, realizzandosi solo durante l’atto interpretativo, in una versione sempre provvisoria. Indubbiamente legata all’attualità è l’ouverture per orchestra di Maurizio Azzan, Breaking walls down (Abbattere i muri), commissionata al giovane compositore, nell’ambito del pluriennale progetto “Nuova musica alla Fenice”, con il sostegno della Fondazione Amici della Fenice e lo speciale contributo di Nicola Maria Giol. Proposta in prima esecuzione assoluta a trent’anni esatti dalla caduta del muro di Berlino, essa trae ispirazione da questo simbolo per eccellenza della volontà di delimitare, separare, marcare le differenze, ma anche da tanti altri muri – eretti per la paura dell’“altro”, nel tentativo di sopperire alla propria debolezza –, che in realtà rappresentano vane difese, destinate a provocare, prima o poi, l’atto sovversivo di valicarle, demolirle in nome della libertà. L’ouverture – basata sul forte contrasto tra inquietanti squarci di silenzio pressoché totale, percorsi da suoni “soffiati” appena percettibili, ed improvvise esplosioni dell’orchestra – evoca verosimilmente il dualismo tra l’oppressivo, silente immobilismo del muro e la carica distruttiva, che a varie riprese ne scaturisce. Impeccabile la resa da parte dell’orchestra, che Angius ha saputo guidare con la consueta sicurezza attraverso una suggestiva, contrastata sequenza di impasti timbrici. Festeggiato l’autore.
Una raffinata sensibilità per il colore orchestrale si è colta nell’Intermezzo composto da Richard Strauss per Idomeneo di Mozart, un’opera per cui il maestro monacense – grande ammiratore del Salisburghese – nutriva un interesse particolare, visto che nel 1930 ne sottopose la partitura originale ad una rielaborazione completa, tra l’altro, inserendo, nel secondo atto, un breve Intermezzo in do minore, scritto di proprio pugno. Magistrale la lettura offerta da Angius, sempre pronto a cogliere il “nuovo” nel linguaggio musicale, che ha evidenziato, di questa pagina – assolutamente lontana dal modus scribendi di Mozart –, il ricorrente wagnerismo, testimoniato da frasi ampie, dal colore spesso scuro e dall’intensa drammaticità, che utilizzano, tra l’altro la cosiddetta “scala enigmatica”, a cui ricorre anche Verdi nell’“Ave Maria” dell’Otello.
In base ad un’ottica “contemporanea” ci è sembrato che il direttore abbia indagato analogamente la grandiosa architettura sonora, che caratterizza la Sinfonia “Jupiter”, ultimo titolo della produzione sinfonica di Mozart. Composta insieme alle due sinfonie immediatamente precedenti nell’estate 1788, a Vienna, la sua denominazione, riferentesi al re degli dei della mitologia classica, fu suggerita dall’impresario inglese Johann Peter Salomon, che intese così indicare simbolicamente la suprema perfezione di questo caposaldo del genere sinfonico, sublime trait d’union tra passato e futuro. E al futuro guardava anche Angius, che nel primo movimento, Allegro vivace, sembrava voler sottolineare i forti contrasti, anticipatori della concezione sinfonica beethoveniana: dall’attacco perentorio di archi e legni all’unisono, basato su quattro note Do-Sol–La–Si-Do, a cui risponde un delicato, esitante inciso, affidato a violini e viole, allo scultoreo primo tema, cui si contrappone il secondo tema scorrevole e leggero. Assolutamente dominatore della partitura è risultato il direttore nel mettere in luce il sublime costruttivismo dell’ultimo movimento, Molto allegro, una costruzione polifonica, la cui complessità, non ha pregiudicato affatto una felicissima fruibilità da parte degli ascoltatori: aperto da un tema costituito da semibrevi – la sequenza Do-Re-Fa-Mi – affidato ai violini, poi molte volte ripreso e imitato, il movimento risulta costituito da ben cinque temi, sviluppati e combinati in un contrappunto incalzante, dove la Fuga, cioè il retaggio del passato, e la forma-sonata, che sarebbe arrivata al suo apice con Beethoven, si fondono in un’architettura perfettamente compiuta.
Più distesa – come dev’essere – è risultata l’esecuzione della Sinfonia “Pastorale”. Composta parallelamente alla Quinta, questa partitura rappresenta l’omaggio alla natura da parte di uno spirito inquieto, che trovava in essa la serenità e la purezza, cui anelava, insieme al ristoro per la sua sete di verità e di conoscenza. Influenzato dal panteismo metafisico di Schelling, l’artista riconosceva la spiritualità della natura stessa e cercava di tradurne le “voci” nel linguaggio dei suoni. Questo spiega perché egli tenne a riportare sul manoscritto della sinfonia usato per la prima esecuzione, avvenuta a Vienna il 22 dicembre 1808, la definizione di “Sinfonia pastorella – mehr Ausdruck der Empfìndung als Malerey” (più espressione del sentimento che pittura), a sottolineare che si tratta di un’espressione interiore, che non ha niente a che vedere con il naturalismo descrittivo dell’oratorio Le stagioni di Haydn o con le Quattro stagioni di Vivaldi. Lo stesso temporale – che non piaceva a Debussy, in quanto lo riteneva troppo imitativo – va probabilmente interpretato in senso soggettivo come momento evocativo dell’angoscioso smarrimento degli uomini difronte al pauroso scatenarsi degli elementi. E ci pare che anche Marco Angius si sia dimostrato sulla stessa lunghezza d’onda, mettendo in primo piano le ragioni della musica, senza accentuare gli aspetti realistici o naturalistici di questa celebre composizione, dimostrando un’estrema cura del suono, con la determinante complicità delle varie sezioni orchestrali, sempre all’altezza per qualità e sensibilità delle loro prestazioni. Calorosi applausi hanno chiuso festosamente questa intrigante serata.