Teatro Carlo Felice di Genova: “La Bohème”

Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione d’Opera 2019-2020
LA BOHÈME
Opera in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal romanzo Scenès de la vie de bohème di Henri Murger.
Musica di Giacomo Puccini
Mimì REBEKA LOKAR
Rodolfo STEFAN POP
Marcello MICHELE PATTI
Musetta LAVINIA BINI
Colline ROMANO DAL ZOVO
Schaunard GIOVANNI ROMEO
Benoit e Alcindoro MATTEO PEIRONE
Parpignol GIULIANO PETOUCHOFF
Sergente dei doganieri ROBERTO CONTI
Un doganiere ALESSIO BIANCHINI
Un venditore ambulante ANTONIO MANNARINO
Orchestra, Coro e Coro di Voci Bianche del Teatro Carlo Felice

Direttore 
Andrea Battistoni
Direttore del Coro Francesco Aliberti
Direttore del Coro di Voci Bianche Gino Tanasini
Regia Augusto Fornari
Scene e Costumi Francesco Musante
Luci Luciano Novelli riprese da Angelo Pittaluga
Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice
Genova, 13 dicembre 2019
La Bohème” correntemente replicata al Carlo Felice, non è nuova, ne abbiamo scritto in più di una occasione e, almeno per il pubblico genovese, ha un che di iconico e quasi “leggendario”, dovuto sia alla sua estetica nettissima, sia all’autoctonia di tutto il team creativo. Eppure rivederla in scena (con qualche aggiustamento dal 2012), pone almeno una questione che colleghi, di caratura certo migliore della mia, sembrano non aver voluto considerare – il famoso elephant in the room, come lo definiscono oltreoceano: fin dove si può spingere una messa in scena? È un quesito che altre volte ci siamo posti, cui è impossibile dare una sola risposta, e proprio per questo è sempre positivo riporselo, qualora ciò che vediamo ce lo riporti alla mente. L’occasione qui è proprio azzeccata: le scene e i costumi, infatti, sono opera riconoscibilissima di un apprezzato artista serigrafo contemporaneo, Francesco Musante, e la regia è affidata a un volto “giovane” del nostro cinema e teatro, Augusto Fornari, adiuvato da un altro giovane, Lorenzo Giossi. La scelta operata è, tuttavia, azzardata, per quanto riguarda Fornari e Giossi, per la poca esperienza nel settore, per quanto riguarda Musante, invece, per la natura stessa delle sue opere: tutta la scena e i costumi, infatti, sono pervasi di rutilante e colorata naïveté, ricreando un mondo da illustrazione acquarellata, da carillon, da bottega di giocattolaio d’altri tempi. La soffitta è una casetta delle bambole, il Momus un teatrino di carta, la dogana la cartolina di un inverno di tanti anni fa; i costumi sono tutti idi gusto “circense”: sgargianti, rigati, lucidi; le luci (di Luciano Novelli, qui riprese da Angelo Pittaluga) sono calde, illuminano dall’interno, per dare ancora di più questa idea di diorama d’infanzia gioconda e sognante, dolce e clownesca; l’intero boccascena è poi incorniciato da queste illustrazioni, che compongono anche il sipario, vera opera d’arte, nel suo genere. Va tutto benissimo, non è certo il primo artista contemporaneo a “prestarsi” all’opera. Tuttavia l’opera in questione, pur avendo momenti di allegria e leggerezza, è un dramma macerante, che coinvolge argomenti sociali forti, come la povertà, la malattia, la deriva culturale: il contesto in cui viene qui inserito stride enormemente con queste tematiche “adulte”, senza considerare la passione amorosa (fatta di desiderio, disperazione, gelosia) che coinvolge le due coppie protagoniste. Una messinscena di questo tipo sarebbe stata valorizzata maggiormente in un contesto di opera buffa, o per lo meno a lieto fine: in questa “Bohème” latita la stimmung stessa della vita maledetta e controversa che il termine “bohème” lascia intendere, e, purtroppo inevitabilmente, lo spettatore meno ingenuo storce il naso di fronte a Mimì nascosta dietro un pupazzo di neve, i quadri di Marcello come le tavole di educazione artistica delle scuole medie, al praticabile rotante della scena (è il terzo in tre produzioni, basta!) attivato con una enorme chiave da ingranaggio meccanico, e altre scioccherelle atrocità. Il commento di certo pubblico è “Bello, ma non è La Bohème”, e come dargli torto? Purtroppo anche sul fronte musicale la produzione non si può dire davvero riuscita: la direzione di Andrea Battistoni è decisamente personale, con continui rubati cui anche i cantanti sembrano poco avvezzi (non poche le discrasie tra palco e buca); se l’energia del Maestro è perfetta per un atto come il secondo, sul terzo e il quarto ci lascia dubbiosi, essendo abituati a un abbandono più misurato e a una maggiore coesione anche tra cantanti, che in effetti è latitata; Puccini è tra i più insidiosi da dirigere, proprio per una sostanziale “schizofrenia”, che in ogni opera ricopre quasi l’intera gamma del sentimento: ci è parso che Battistoni si focalizzasse solo sull’appassionato, tragico, burlesco… tralasciando le sfumature intermedie, i portamenti di una partitura senz’altro non tra le migliori del genio toscano, ma ricchissima proprio di queste sfumature. Parimenti possiamo pronunciarci circa alcuni interpreti: Rebeka Lokar nonostante le indubbie qualità vocali, è una Mimì un po’ incolore (benché vestita di fucsia), convenzionale, senza un guizzo musicale, senza una linea interpretativa, sia essa musicale o scenica – gli stessi dubbi che nutrivamo sulla sua Leonora nel recente “Trovatore” genovese. Neppure  Lavinia Bini brilla: la sua è una Musetta evanescente, vocalmente fragile nella proiezione, per quanto intonata e coinvolta. Anche lo Schaunard di Giovanni Romeo e il Colline di Romano Dal Zovo non svettano particolarmente, rimanendo su un generale livello di correttezza, mentre Michele Patti nei panni di Marcello convince grazie alla cura della linea di canto e del fraseggio. Stefan Pop (Rodolfo) si conferma cantante di rilievo, mostra però una certa tensione in acuto ed è poco focalizzato sulla gamma espressiva che di solito ama esplorare: ci auguriamo si tratti di una stanchezza temporanea. Nel segno della correttezza gli altri ruoli: Matteo Peirone (Benoit / Alcindoro), Giuliano Petouchoff (Parpignol), Roberto Conti (Sergente dei doganieri), Alessio Bianchini (un doganiere), Antonio Mannarino (Un venditore ambulante). I cori del Teatro Carlo Felice (diretti dai maestri Francesco Aliberti e Gino Tanasini) danno prove sempre al di sopra del soddisfacente, con particolare plauso per il Coro di Voci Bianche, dalla dizione chiara e un’apprezzabile coesione. Il pubblico in sala applaude a tutto e tutti con convinzione, sia a scena aperta, sia sul finale: capiamo, ma dissentiamo.