Torino, Teatro Regio: “Nabucco” (cast alternativo)

Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera e balletto 2019-2020
“NABUCCO”
Dramma lirico in quattro parti su libretto di Temistocle Solera.
Musica di Giuseppe Verdi
Nabucco DAMIANO SALERNO
Abigaille TATIANA MELNYCHENKO
Ismaele ROBERT WATSON
Zaccaria RUBÉN AMORETTI
Fenena AGOSTINA SMIMMERO
Il gran sacerdote di Belo ROMANO DAL ZOVO
Abdallo ENZO PERONI
Anna SARAH BARATTA
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Donato Renzetti
Maestro del Coro Andrea Secchi
Regia Andrea Cigni
Scene Dario Gessati
Costumi Tommaso Lagattolla
Luci Fiammetta Baldiserri
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino, in coproduzione con Teatro Massimo di Palermo
Torino, 13 febbraio 2020
Rivedere la sala del Teatro Regio traboccante di pubblico riempie il cuore. Una recita ordinaria di Nabucco col cast alternativo, senza nomi da star system in locandina, da questo punto di vista è riuscita dove avevano fallito, con interpreti più rinomati, Tosca e Carmen (forse già tornate troppe volte sul palcoscenico torinese nell’ultimo decennio), Violanta (troppo ignota per un pubblico abitudinario) e Il matrimonio segreto (che, probabilmente, per gli spettatori locali presenta un curioso mix dei due summenzionati fattori). A quanto pare, i torinesi decidono di andare all’opera essenzialmente sulla base del titolo rappresentato; ma di titoli che uniscano una grande popolarità al fatto di non essere stati allestiti a Torino da più di vent’anni (Nabucco mancava dal 1997), non se ne contano molti nel catalogo universale. Urge quindi adottare qualche strategia per fidelizzare il pubblico occasionale, risvegliando in esso il fascino per l’opera ascoltata dal vivo. Una strategia potrebbe essere quella di garantire sempre un’alta qualità esecutiva, di modo che il torinese di passaggio senta il desiderio di tornare per lo spettacolo successivo, e, magari, di acquistare un abbonamento per la prossima stagione. Non so quanti, tra gli spettatori della recita di cui si sta parlando, abbiano provato questo desiderio; e quanti non abbiano invece avuto la sensazione di assistere a una performance condotta stancamente in porto, dopo la quale ci si può rimettere le pantofole finché non compaia in cartellone, diciamo a caso, una Forza del destino (altro titolo assente da quasi un ventennio).
La componente visiva dello spettacolo, curata da Andrea Cigni, si può iscrivere alla voce “regia tradizionale”. I costumi sgargianti di Tommaso Lagattolla immergono nell’atmosfera storica della vicenda, il trucco sul volto di Abigaille la fa curiosamente assomigliare a Elisabetta I d’Inghilterra (che si sia voluta istituire una similitudine tra due virago di potere?). Le scene di Dario Gessati risultano tanto più efficaci quanto più sono spoglie ed evocative, come il quadro della prigione di Nabucco: una parete aperta da una sola fessura verticale, sufficiente a far percepire al recluso la luce del giorno e a fargli vedere la scena dello sterminio degli Ebrei che si sta apprestando, ma stretta quanto basta perché un corpo umano non riesca a varcarla. Gli orpelli, ad esempio il bislacco carro bellico sul quale il protagonista entra nel tempio di Gerusalemme, sono inutili. L’azione risulta semplice, limpida (in particolare nelle interazioni tra singoli personaggi, sempre ben delineate) e a tratti un po’ statica. Del resto, Nabucco, con la massiccia presenza di cori e di concertati, ha una spiccata dimensione oratoriale, che è meglio rispettare ove non si abbiano idee alternative forti: è stato assai più convincente il quadro del «Va’ pensiero», con le masse corali ferme e il fondale che si apre su una luce radiosa nel finale d’atto, rispetto ai tentativi di movimentare la stretta del finale I o il concertato del finale II, risoltisi senza trovare un vero accordo con i contenuti musicali.
Protagonista in scena è un Damiano Salerno (Nabucco) abile nel valorizzare quei passi in cui il re babilonese deve far trasudare la malcelata sofferenza interiore che lo assale nel momento in cui prende coscienza delle proprie fragilità senili, come il finale II e il duetto con Abigaille. Dove il cantabile dovrebbe distendersi, tuttavia, viene meno la continuità della legatura, sicché nella scena della prigione si finisce per apprezzare il recitativo e la gagliarda cabaletta più che «Dio di Giuda». Il basso Rubén Amoretti dispone di uno strumento chiaro e leggero, che risulta inadatto a esprimere la fede ferma e la salda autorevolezza che sono proprie del pontefice ebraico Zaccaria, cui Verdi affida anche il compito di pronunciare le ultime parole del dramma. Il soprano Tatiana Melnychenko ‒ subentrata a seguito del forfait di Saioa Hernández, che ha fatto slittare in primo cast Csilla Boross ‒ dispone di uno strumento importante, corposo ed esteso, ma dominato con fatica. La sua Abigaille nella I parte è alquanto imbarazzante, il suono sgraziato e l’intonazione insicura; si avverte un sensibile miglioramento nel seguito, ma più nei passi cantabili («Anch’io dischiuso un giorno», morbido e delicato) che nella coloratura drammatica, cui manca la dovuta precisione. Il mezzosoprano Agostina Smimmero è corretta quale Fenena, ma emette suoni troppo penetranti in un’aria intimistica quale «Oh dischiuso è il firmamento». Poco si può dire del tenore Robert Watson, Ismaele piuttosto incolore. Tra le seconde parti, comuni al cast principale, ha suscitato un’ottima impressione l’Anna del soprano Sarah Baratta. La direzione di Donato Renzetti si può definire di buona routine: capace di estrarre un suono gradevole dall’orchestra, di garantire un buon rilievo alle melodie verdiane e di agevolare quanto più possibile i solisti. Non pare doversi attribuire a lui troppa responsabilità per gli sfilacciamenti che si percepiscono nei concertati dei primi due finali. Gli applausi ci sono stati, per tutti; ma senza eccessi di entusiasmo, in specie alla fine delle arie, talvolta cadute nel silenzio. Lo stesso «Va’ pensiero» non è stato bissato a furor di popolo, e questo un po’ è dispiaciuto, perché il Coro del Regio è stato indubbiamente il protagonista più meritevole in campo (sì, in quest’opera lo si può tranquillamente definire protagonista). Ma, al di là di questo dettaglio, l’impressione è di aver assistito a una ripresa in tono minore di un titolo assente da 23 anni sul palcoscenico torinese. Le recite di questo febbraio saranno probabilmente ricordate per aver ospitato, in due sole date, le (forse) ultime esibizioni di Leo Nucci nel ruolo protagonistico, da lui affrontato centinaia di volte nel corso della carriera.