Ludwig van Beethoven 250 (1770-1827): “Concerti per pianoforte e orchestra” e “Triplo Concerto”

Beethoven 2020 –  250 anni  della nascita del compositore
Concerto n. 1 in do maggiore per pianoforte e orchestra op. 15
Allegro con brio -Largo-Rondò (Allegro)

Questo Concerto in do maggiore, numerato come Primo, in realtà fu il secondo in ordine di composizione in quanto scritto nel 1795 dopo quello in si bemolle maggiore iniziato nel 1793; entrambi, inoltre, furono preceduti da un Concerto in mi bemolle maggiore che, composto da Beethoven all’età di 14 anni, rivela più il suo virtuosismo  come pianista che il suo nascente talento di compositore. La discrasia tra la numerazione e l’ordine di composizione è dovuta probabilmente al fatto che Beethoven compose questi concerti per eseguirli personalmente come solista e, quindi, si riservava di apportare delle modifiche suggerite dall’esecuzione e dall’impatto con il pubblico. Quando decise di pubblicarli, nel 1801, si mostrò poco convinto del risultato ottenuto, come si evince da quanto egli stesso affermò:
“Uno dei miei primi concerti [in si bemolle] e quindi non uno dei migliori delle mie composizioni deve essere pubblicato da Hofmeister e Mollo deve pubblicare un concerto [in do maggiore] che invece fu scritto più tardi ma che non si schiera anche tra i migliori dei miei lavori in questa forma”.
Probabilmente Beethoven mostrò di preferire all’altro questo concerto per il quale aggiunse altri strumenti nell’organico orchestrale come clarinetti, trombe e timpani, ottenendo il favore della critica, come si evince da quanto scrisse il recensore dell’«Allgemeine Musikalische Zeitung» dopo la prima esecuzione a Vienna al Burgtheater nel mese di aprile del 1800:
“Anche il Signor Beethoven ha finalmente ottenuto il teatro [Burgtheater] ed è stata probabilmente l’Accademia più importante da lungo tempo a questa parte. Egli ha suonato un nuovo Concerto [Concerto n. 1 in do maggiore op. 15] di sua composizione che contiene molte cose belle – soprattutto i primi due movimenti”.
Il Concerto era già stato eseguito per la prima volta, molto probabilmente, in una tournée tenuta dallo stesso compositore nel 1798 a Praga.
Il primo movimento,  Allegro con brio, in forma-sonata, si apre con l’esposizione orchestrale che sorprende sia per l’ingresso anticipato del secondo tema, non preparato da una transizione modulante, sia per la presenza di una terza idea tematica anticipatrice dell’entrata del solista che si presenta con un tema proprio secondo un procedimento attuato già da Mozart. Tutto il movimento, dominato dal tema principale ripetuto più volte a cui si aggiungono parecchie idee tematiche secondarie, è caratterizzato da tre cadenze di diversa lunghezza e difficoltà, tutte concluse da trilli. Il secondo movimento, Largo, in forma tripartita secondo lo schema A-B-A, è insolitamente in la bemolle maggiore invece che nel regolare fa maggiore, tonalità della sottodominante. La prima sezione espone parecchi temi che vengono poi sviluppati nella parte centrale. Il terzo movimento, Allegro, è nella forma tradizionale del Rondò in sette parti con il pianoforte che espone il tema principale ripetuto per ben due volte. La cadenza è molto breve e non è collocata alla fine del movimento in cui è possibile notare uno stridente contrasto tra il pianoforte che suona una melodia tranquilla e l’orchestra che conclude il Concerto con forza.
Concerto n. 2 in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra op. 19
Allegro con brio – Adagio-  Rondò

Il Secondo concerto, eseguito per la prima volta nel 1798 a Praga con il compositore al pianoforte e sotto la direzione di Antonio Salieri, fu scritto tra il 1794 e il 1795 e rimaneggiato nel 1798  perché Beethoven, prima di darlo alle stampe nel 1801, decise di apportare altre modifiche alla parte pianistica. Studi recenti, tuttavia, sono giunti alla conclusione che una prima versione risalga al periodo di Bonn, cioè a prima del 1790. In questa prima versione il Concerto avrebbe avuto una prima esecuzione in forma privata presso il palazzo Redountensaal con Beethoven al pianoforte e sotto la direzione di Haydn che, di rientro dal suo secondo viaggio a Londra, in quell’occasione diresse anche tre delle sue sinfonie composte nella capitale inglese. Questo Concerto mostra ancora alcuni legami con i modelli mozartiani nell’Allegro iniziale in forma-sonata, nell’ingresso del solista, che si presenta con un tema completamente nuovo, nel secondo tema dello stesso movimento, che vagamente ricorda quello del Concerto in re minore K 466, e nella sezione di sviluppo dove il pianoforte è trattato come uno strumento dell’orchestra. Molto interessante è la cadenza che non figura nella versione del 1801, perché fu stesa tra il 1808 e il 1809, quando Beethoven aveva già composto la maggior parte delle sue sonate; la cadenza, infatti, pur conservando il materiale tematico del concerto, mostra una maturità di scrittura che, a livello pianistico, Beethoven non aveva ancora raggiunto all’epoca della composizione del concerto. Più originale e innovativo appare, invece, il secondo movimento, Adagio, pervaso da un intenso pathos tipico dei secondi movimenti beethoveniani; particolarmente suggestivo è il passo in cui i legni eseguono il tema accompagnati da un leggerissimo pizzicato degli archi e dal pianoforte a cui sono affidati degli arpeggi. L’ultimo movimento è un Rondò, sostituito da un altro in una successiva versione per nascondere le influenze mozartiane relative al ritmo in 6/8 e alla scrittura brillante che ricorda il finale del concerto K. 482. Nella parte conclusiva del movimento i violini espongono un frammento che sarà ripreso nel secondo movimento della Pastorale.
Concerto n. 3 in do minore per pianoforte e orchestra op. 37
Allegro con brio-Largo-Rondò (Allegro)

Il Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra op. 37 segna un cambiamento nello stile di Beethoven che, staccandosi dai modelli tradizionali e sfruttando le potenzialità degli strumenti usati in quel periodo, inaugurò la fase romantica della forma del concerto in cui il solista intraprende quasi una gara con l’orchestra; ciò comportò, per il pianoforte, la perdita del suo caratteristico stile ornato e l’utilizzo di una maggiore robustezza che lo avrebbe trasformato in protagonista. Il Concerto, la cui composizione risale all’inizio del 1800, dedicato al principe Luigi Ferdinando di Prussia, fu eseguito per la prima volta a Vienna il 5 aprile 1803 con la direzione di Ignaz von Seyfried e con lo stesso Beethoven al pianoforte. Per questa Accademia, nella quale furono eseguite anche altre pagine beethoveniane e, in particolar modo, Cristo sul monte degli Ulivi, la Seconda e la Prima sinfonia, il compositore di Bonn decise di raddoppiare quando addirittura non triplicare i prezzi dei biglietti suscitando qualche commento malevolo sulla stampa locale. Nonostante le attese e i preparativi l’Accademia rischiò di saltare a causa del sabotaggio messo in atto dal Barone von Braun, impresario degli altri due maggiori teatri di Vienna.  Alla prima esecuzione Beethoven suonò quasi a memoria essendo la partitura incompleta, come apprendiamo da una dichiarazione dello stesso Seyfried, che quella sera voltò le pagine per lui:
“Non vidi quasi niente, ma fogli vuoti; al più, su una pagina o un’altra geroglifici egiziani, interamente incomprensibili per me, erano scarabocchiati giù per servire come tracce per lui, per cui egli suonò quasi tutta la parte a memoria. Come avveniva spesso, egli non aveva avuto il tempo di metterla tutta giù sulla carta”.
Il compositore provvide in un tempo molto breve alla stesura della parte pianistica che risultò di grande livello virtuosistico per l’epoca, come ci è testimoniato da quanto scrisse un recensore dell’«Allgemeine Musikalische Zeitung» a proposito dell’esecuzione del Concerto durante una successiva Accademia, tenuta all’Augarten di Vienna il 26 luglio 1804 con Ferdinand Ries al pianoforte:
“Il signor Ries ha presentato un’esecuzione molto serrata ed espressiva, come pure un’abilità e una sicurezza rare nel superamento delle notevoli difficoltà”.
Nonostante il periodo difficile che Beethoven stava vivendo, il Concerto presenta importanti aspetti innovativi tra cui le dimensioni molto ampie rispetto agli altri lavori del genere e il carattere romantico di alcuni temi dei quali il secondo del primo movimento spicca per il suo straordinario lirismo. Il primo movimento, Allegro con brio, si apre con una tradizionale lunga esposizione orchestrale che precede l’ingresso del solista impegnato sin dall’inizio a gareggiare con l’orchestra grazie a tre perentorie scale. Il primo tema, per il suo carattere solenne, non può non ricordare il tema principale dell’Eroica, mentre il secondo, in netto contrasto con il precedente, è di carattere cantabile e lirico. Questo primo movimento, la cui scrittura si richiama alla tradizione del concerto militare, ha un forte senso drammatico che raggiunge il suo culmine nella parte conclusiva con il dialogo fra pianoforte e timpani. Il secondo movimento, Largo, presenta un carattere contemplativo ottenuto con un ampio flusso melodico esposto dal pianoforte e ripreso dagli archi con sordina. La terza ed ultima parte del movimento è caratterizzata dal ritorno del clima iniziale in una scrittura più armonica che melodica. Il Rondò conclusivo, ad un ascolto superficiale, può apparire come un ritorno ad una scrittura più tradizionale, ma il tema iniziale, che si estende per otto misure, è uno dei più lunghi scritti da Beethoven in un Concerto per pianoforte e orchestra; alcune armonie dissonanti, collocate all’inizio del ritornello e apparse al pubblico contemporaneo particolarmente insolite, costituiscono un’ulteriore conferma della modernità di questo Concerto.
Concerto n. 4 in sol maggiore per pianoforte e orchestra op. 58
Allegro moderato-Andante con moto-Rondò (Vivace)

Composto tra il 1805 e il 1806, in un periodo particolarmente felice per Beethoven, che stava vivendo un intenso quanto importante idillio con Josephine Brunswick, il Quarto concerto per pianoforte e orchestra con il carattere lirico di alcuni suoi temi sembra rappresentare fedelmente la gioia del compositore che, dopo la morte del primo marito della donna, il vecchio e geloso Deym, avrebbe voluto sposarla. Il Concerto fu eseguito per la prima volta in forma privata nella casa del principe Lobkowitz nel mese di marzo del 1807 e in pubblico il 22 dicembre 1808 al Theater an der Wien nella famosa Accademia in cui il compositore presentò anche la Quinta e la Sesta e di cui ci ha lasciato un resoconto molto dettagliato il compositore Johann Friedrich Reichard in una sua lettera:
“Vi siamo stati a sedere dalle sei e mezza fino alle dieci e mezza in un freddo polare, e abbiamo imparato che ci si può stufare anche delle cose belle. Il povero Beethoven, che da questo concerto poteva ricavare il primo e unico guadagno di tutta l’annata, aveva avuto difficoltà e contrasti nell’organizzarlo. […] Cantanti e orchestra erano formati da parti molto eterogenee. Non era stato nemmeno possibile ottenere una prova generale di tutti i pezzi, pieni di passi difficilissimi. Ti stupirai di tutto quel che questo fecondissimo genio e instancabile lavoratore ha fatto durante queste quattro ore. Prima una Sinfonia Pastorale o ricordi della vita campestre pieni di vivacissime pitture e di immagini. Questa Sinfonia Pastorale dura assai di più di quanto non duri da noi a Berlino un intero concerto di corte. […] Poi, come sesto pezzo, una lunga scena italiana […] Settimo pezzo: un Gloria, la cui esecuzione è stata purtroppo completamente mancata. Ottavo brano: un nuovo concerto per pianoforte e orchestra di straordinaria difficoltà [il Concerto n. 4 op. 58], che Beethoven ha eseguito in un tempo allegrissimo e con una maestria da sbalordire. Nono pezzo: una Sinfonia [la Sinfonia n. 5 op. 67]. Decimo pezzo: un Sanctus […]. Ma al concerto mancava ancora il “gran finale”: la Fantasia per pianoforte, coro e orchestra. Stanchi e assiderati, gli esecutori si smarrirono del tutto”.
In questa accademia eccessivamente lunga il Concerto non rimase, però, inosservato da Reichardt che, notandone la difficoltà, in realtà  ha messo in evidenza il carattere innovativo del lavoro. Anche l’anonimo giornalista dell’«Allgemeine Musikalische Zeitung», rivista sempre puntuale nel recensire le nuove composizioni di Beethoven, affermò: «Questo concerto è il più ammirevole, singolare, artistico e complesso di tutti i concerti di Beethoven». Il carattere innovativo del Concerto emerge nelle prime battute del primo movimento, Allegro moderato, nelle quali il pianoforte fa il suo ingresso immediatamente esponendo il tema e quasi preparando l’intervento dell’orchestra, limitata ai soli archi. Non è soltanto questa novità strutturale a dare la sensazione di essere di fronte ad un’opera profondamente innovativa, ma, soprattutto, la scrittura sia della parte solistica che dell’orchestra, dal momento che il virtuosismo è qui piegato all’espressione di un sentimento lirico, al quale partecipano in alcuni passi la dolcezza dei legni e il sospiroso tema iniziale con i suoi suoni ribattuti e le appoggiature pieni di pathos. Questo inciso iniziale, che ricorda vagamente quello della Quinta sinfonia, perde qui tutta la sua tensione drammatica per dare l’avvio ad un movimento nel quale manca quasi totalmente ogni elemento di conflitto dal momento che il pianoforte è trattato quasi come uno strumento dell’orchestra con la quale non si pone in contrasto. Di difficile identificazione formale è il breve secondo movimento, Andante con moto, che si pone nettamente al di fuori dagli schemi consolidati dalla tradizione. L’orchestra, ridotta ai soli archi espone un tema nervoso con la sovrabbondanza dei ritmi puntati; ad essa risponde con un tema il solista, che non si mescola mai con l’orchestra, se non nella parta conclusiva che termina in modo pensoso e interrogativo. L’ultimo movimento è, infine, un Rondò di carattere brillante in cui il pianoforte e l’orchestra dialogano e si integrano perfettamente.
Concerto n. 5  per pianoforte e orchestra op. 73 “Imperatore”
Allegro-Adagio un poco mosso-Rondò

Composto nel 1809, il Quinto concerto per pianoforte e orchestra costituisce il congedo di un Beethoven ancora giovane da questo genere che pur gli aveva riservato notevoli ed importanti successi e si configura, quindi, come una forma di testamento che, per il suo carattere monumentale e sinfonico, apre le porte agli importanti sviluppi che questa forma avrebbe avuto nell’Ottocento. Acclamato pianista, Beethoven si era, infatti, inserito nel mondo musicale prima come esecutore che come compositore ed era stato il primo interprete al pianoforte dei suoi concerti, dei quali l’ultimo era stato eseguito soltanto un anno prima, il 22 dicembre 1808, al Teatro An der Wien. L’acuirsi della sordità e, quindi, l’impossibilità di sedersi al pianoforte per eseguire come solista la propria musica indussero, probabilmente, Beethoven a non scrivere più concerti per strumento solista in genere e per pianoforte in particolare. Il 1809, inoltre, non era stato certo un anno facile per il compositore per il quale alla già grave menomazione fisica si unì una sfavorevole congiuntura sia personale che politica, determinatasi, quest’ultima, con l’occupazione di Vienna da parte delle truppe napoleoniche che l’11 maggio di quell’anno avevano aperto il fuoco sulla capitale asburgica costringendo Beethoven a lasciare la sua casa a Wallfischgasse e a rifugiarsi presso il fratello Karl. Il Quinto concerto fu composto proprio in questi alquanto tribolati giorni, ma fu eseguito per la prima volta in pubblico soltanto due anni dopo, il 28 novembre 1811, al Gewandhaus di Lipsia dove il direttore Johann Philippe Christian Schulz e il giovane pianista Johann Friedrich diedero vita ad un’esecuzione che l’«Allgemeine Musikalische Zeitung» non esitò a definire un trionfo. Alla prima esecuzione viennese, avvenuta il 15 febbraio 1812 con il giovane pianista Carl Czerny, allievo di Beethoven, il Concerto non ebbe la stessa accoglienza  e solo un ufficiale della Grande Armée francese fu sentito, alla fine, esclamare: Questo è l’imperatore dei concerti. Secondo questo aneddoto il titolo posticcio di “Imperatore” deve essere attribuito a questo anonimo ufficiale e non a Johann Baptist Cramer, pianista ed editore oltre che amico del compositore, come vorrebbe un’altra versione dei fatti. Alla fortuna di questo titolo hanno certo contribuito sia la scelta della tonalità, il mi bemolle maggiore, che lo accomuna all’Eroica, sia  la monumentalità dell’opera che raggiunge proporzioni senza precedenti tali da rappresentare un’importante innovazione per la stessa forma del concerto solistico.
Il primo movimento, Allegro, infatti, contrariamente alla consuetudine, che prevede la presenza dell’esposizione orchestrale, mette subito in rilievo il solista, al quale, insieme all’orchestra, è affidato il compito di presentare la tonalità d’impianto, il mi bemolle maggiore, attraverso i suoi accordi più rappresentativi; proprio da questi accordi scaturiscono delle eleganti e virtuosistiche decorazioni del solista, generalmente riservate alla cadenza finale del primo movimento, soppressa in questo concerto per esplicita volontà del compositore che prescrisse: non si fa alcuna cadenza, ma si attacca subito il seguente. A questa introduzione segue l’esposizione orchestrale con il trionfale e solenne primo tema, affidato ai violini primi, al quale si contrappone dialetticamente il secondo che assume prima un carattere saltellante nel delicato staccato degli archi per diventare, poi, sensuale nella dolce versione legata affidata ai corni. La riesposizione del solista si configura già come una forma di sviluppo sia  per le eleganti variazioni affidate al pianoforte, che ornano il primo tema, sia per la scelta di Beethoven di riprendere il secondo in una tonalità lontana. Nello sviluppo vero e proprio la dialettica tematica, tipica della forma-sonata si integra in una nuova forma di contrasto dialettico tra l’orchestra che rielabora i temi  e il pianoforte al quale è lasciato il compito di variarli virtuosisticamente. Ulteriore testimonianza della perfetta integrazione fra solista ed orchestra è l’assenza della cadenza nella parte conclusiva del movimento quando il virtuosismo del pianoforte, mai fine a se stesso e sempre teso a rinnovare gli elementi tematici, dialoga con gli altri strumenti in una totale situazione di parità. Il secondo movimento, Adagio un poco mosso, presenta una delicata e solenne compostezza, dotata di una pensosa religiosità espressa magnificamente dall’iniziale tema di corale in si maggiore, affidato agli archi. Sorprendente e, per certi aspetti, straniante è l’ingresso del pianoforte a cui è affidato uno struggente tema in terzine che, soltanto nella parte conclusiva, cede il posto alla ripresa del tema principale. Legato al secondo movimento con due misure in cui il pianoforte anticipa il tema iniziale, il terzo movimento, Allegro, costituisce una geniale contaminazione tra la forma del Rondò e quella del tema e variazioni; il tema iniziale, caratterizzato da una grande libertà agogica che maschera il ritmo di 6/8 con una scansione in 3/4, viene variato virtuosisticamente nei successivi episodi che si alternano ai canonici refrain. Questa scrittura virtuosistica dà l’impressione di una continua improvvisazione, ben controllata da Beethoven, che, costruendo tutto in modo perfetto, non lascia all’improvvisazione del solista nessuno spazio se non quello ritagliatogli dal compositore.
Concerto (Triplo concerto) in do maggiore per pianoforte, violino e violoncello e orchestra op. 56
Allegro-Largo-Rondò alla polacca

Considerato fino a qualche tempo fa un lavoro minore, il Triplo Concerto di Beethoven fu composto su richiesta del giovane Arciduca Rodolfo d’Austria, suo allievo di pianoforte non tra i più dotati, che si dilettava a suonare in trio con il violinista Carl August Seidler e il violoncellista Anton Kraft. Pur essendo stato poco apprezzato dai contemporanei, come è testimoniato dal fatto che la casa editrice Breitkopf & Härtel si rifiutò per ben due volte di pubblicarlo, e dalla tardiva prima esecuzione pubblica avvenuta all’Augarten soltanto nel 1808, il Concerto, che Beethoven chiamava classicamente sinfonia concertante, si è affermato per il suo carattere gaio che si rifà più ai modelli francesi che a quelli di Haydn e Mozart e nel contempo esprime lo stato d’animo del compositore. In effetti il Triplo Concerto fu composto tra la seconda metà del 1803, dopo che l’Eroica era stata già completata, e i primi mesi del 1804, poco prima della stesura del Fidelio, in un periodo particolarmente felice per il compositore che stava vivendo un intenso quanto importante idillio con Josephine Brunswick, che egli avrebbe voluto sposare dopo la morte del primo marito della donna, il vecchio e geloso conte Joseph Deym von Stritetz. Per un momento il dramma della sordità e quello della solitudine sembrarono superati in virtù di questo amore espresso in questo Concerto attraverso una straordinaria ricchezza tematica, che emerge nonostante un certo squilibrio nelle parti solistiche la cui scrittura è stata dettata fondamentalmente dalle capacità tecniche degli esecutori a cui era destinata la partitura. La parte del pianoforte, che doveva essere eseguita dall’Arciduca Rodolfo, è, infatti, la più semplice, mentre molto complessa è quella del violoncello destinata ad Anton Kraft, il più virtuoso dei tre esecutori.
La ricchezza delle figurazioni ritmiche contraddistingue il primo movimento, Allegro, che si apre con una suggestiva e classica esposizione orchestrale, nella quale il primo tema, esposto inizialmente in pianissimo da violoncelli e contrabbassi,  è ripreso dai violini dopo un crescendo, tipico dei lavori concertanti della scuola di Mannheim. Gaio è anche il secondo tema esposto dai violini in una solare tonalità di sol maggiore, mentre più complessa è l’esposizione dei tre solisti con il violoncello che riprende il tema iniziale, imitato dal violino e, con una certo distacco, anche dal pianoforte.
A questo primo movimento, ricco di figurazioni ritmiche e tematiche si contrappone il breve secondo movimento, Largo, strutturato su un unico tema estremamente melodioso. In questo movimento domina il violoncello che in alcuni passi raggiunge anche le zone più acute del suo registro ad ulteriore conferma del fatto che questa parte è stata scritta per un virtuoso dello strumento. Nel Finale, un Rondò alla polacca, di grande effetto per la brillantezza ritmica, Beethoven utilizzò per la seconda volta, dopo la Serenata op. 8, questa danza dalla quale in questo movimento ha tratto il ritmo ternario e alcuni abbellimenti utilizzati nel refrain.