Karl Böhm (Graz, 28 agosto 1894 – Salisburgo, 14 agosto 1981)
Se si mettesse in testa un berretto con la visiera, Karl Böhm potrebbe sembrare un ufficiale degli “Alpenjäger” ben piantato, asciutto, essenziale nei gesti, come nel parlare il celebre direttore d’orchestra austriaco porta i suoi settantaquattro anni con la scioltezza tipica di un uomo parsimonioso, abituato alle lunghe camminate, al mangiare regolare, ma anche alle emozioni essenziali e profonde di un uomo civile, innamorato della propria attività. E parlando con lui sembra di capire che egli non sia nemmeno troppo convinto di essere chi è, cioè uno degli ultimi e più autorevoli testimoni di un modo di “fare musica” con umiltà e con amore: uno dei grandi, insomma, di cui l’Europa possa ancora vantarsi. Probabilmente se gli avessero detto, nei primi decenni del Novecento, che dopo mezzo secolo sarebbe stato considerato uno dei testimoni più autorevoli dell’arte direttoriale, avrebbe sorriso di scetticismo: nato a Graz il 28 agosto 1894, educato in una famiglia che aveva il gusto per l’arte, ma che non intendeva fare di lui un musicista militante, Böhm venne avviato agli studi giuridici e arrivò fino alla laurea.
La musica fu per lui, come per molti giovani intellettuali borghesi dell’Austria asburgica, un necessario e distintissimo complemento culturale; Ma egli ebbe per maestro di composizione uno dei fedeli amici di Brahms, Mandyczewsky ed ereditò nelle sue lezioni l’approfondimento di quelle “ragioni native” (come le chiamerebbe Gavazzeni) che lo portavano verso la musica.
Difatti il giovane Karl cominciò ben presto la sua attività di musicista come sostituto a Graz. Era l’inizio di una predilezione per il teatro musicale che avrebbe guidato anche in futuro la sua arte e i risultati furono subito così promettenti che nel 1919 prese la decisione di non pensare più alla carriera di avvocato o di professore universitario, e di dedicarsi completamente alla musica: in questo favorito dall’aiuto di un ancor giovane è grandissimo direttore d’orchestra Bruno Walter, che nel 1921 lo vuole con sé al Teatro dell’Opera di Monaco, dovere è rimasto quasi sei anni, in un momento fra i più vivi dell’arte musicale tedesca.
Pronto, vivace, battagliero Karl Böhm nel 1928 era già “Generalmusikdirektor” a Darmstad; nel 1931 era nominato primo direttore all’Opera di Amburgo; poi sostituì Fritz Busch a Dresda e nel 1943 diventò il direttore dell’Opera di Stato di Vienna, in un momento irto di travagli politici e spirituali, che ebbero ripercussioni anche dell’immediato dopoguerra. Ma Böhm, che aveva voluto essere soprattutto un musicista, continuo anche dopo il 1945 la sua attività di direttore d’orchestra, quasi con maggior lena che in gioventù, come se avesse la consapevolezza di dover lasciare ai suoi colleghi più giovani uno stile musicale, che era anche e soprattutto un fenomeno di costume. Del resto egli era stato il direttore d’orchestra prediletto da Richard Strauss, e dell’illustre compositore bavarese aveva ereditato il suo modo spontaneo e quasi popolaresco di avvicinarsi alla ricchezza più genuina di Mozart.
Strauss gli aveva dedicato la partitura della sua Daphne, che Böhm diresse a Dresda, in prima esecuzione assoluta, nell’ottobre del 1938. Strauss affidava volentieri a lui la direzione del Rosenkavalier, di cui Böhm sembra anche oggi far rivivere – forse come nessuno – il profumo e la tristezza dolcissima. E Böhm era il musicista che aveva vissuto da vicino il travaglio del suo grande conterraneo, Alban Berg, del quale oggi l’interprete più asciutto e drammatico, specialmente per i due capolavori teatrali, cioè Wozzeck e Lulu.
Ma il suo grande idolo è Mozart, per lui questo musicista è, accanto a Schubert, la chiave per la comprensione di un altro conterraneo, Anton Bruckner; ed è forse per la consapevolezza di questi legami nascosti della civiltà “austriaca” che il suo Mozart ha un sapore tutto particolare: le sue nozze di Figaro, ad esempio, scorrono via col divertimento teatrale del Barbiere di Siviglia, senza fronzoli, secondo una tradizione che potrebbe trovare un parallelo soltanto in certi nostri illustri esempi di interpretazione verdiane. E con nessun altro direttore di oggi, forse gli spettatori si divertono come quando Böhm guida uno spettacolo mozartiano: perché il suo gusto del teatro è lontano da qualsiasi nevrosi di perfezionismo, i recitativi hanno un ritmo essenziale, le arie si chiudono come in attesa di avere il complemento dell’applauso, e non rimangono sterili, a mezz’aria come nelle edizioni discografiche.
E Mahler, l’altro grande austriaco? Böhm confessa candidamente di non riuscire a capirlo: gli sembra una derivazione di Wagner, e lo trova meno originale ed importante di Bruckner. Lascia capire che la fortuna contemporanea dell’illustre sinfonista austriaco è nata dal concorso di molte circostanze sentimentali ( la protezione a Schoenberg, le “anticipazioni” di Berg, ecc.). Invece è a Wagner che guarda con sempre maggiore interesse, oggi che la sua serena figura di interprete è contesa dei più grandi teatri del mondo. E anche a Wagner si avvicina “per via di musica”, senza essere sopraffatto dalle mitologie, con un senso concreto della costruzione drammatica e del teatro, senza avere la voglia di “riformare” nulla.
Negli anni del dopoguerra dopo aver diretto più volte al Colón di Buenos Aires e negli Stati Uniti (dove il suo nome è oggi più famoso di altri, pur celeberrimi e di moda), toccò a Böhm tornare tornare all’Opera di Vienna, nel 1954, con un Fidelio rimasto memorabile. Per lui fu una grande gioia, e l’inizio di una nuova stagione della sua attività di interprete. Ma non per questo smise di essere il semplice, puntuale e, simpatico “professor Böhm “, quello che un giorno – di fronte una grande orchestra napoletana da cui non riusciva durante una prova ad ottenere il silenzio – ebbe ad esclamare con stizza: “Signori, non fate come i bambini… “. E stava per lasciare il podio, un po’ sorpreso e un po’ indignato, quando tutti gli si fecero intorno a pregarlo di restare; e uno, addirittura si mise a suonare O sole mio, seguito un po’ per volta da tutti.
Böhm ricorda ancora quest’episodio, e sorride, come di fronte è una curiosità che gli è rimasta simpatica. E aggiunge: “Del resto, era un’ottima orchestra… perché non ci sono le orchestre cattive e quelle buone. Ci sono soltanto dei buoni e dei cattivi direttori… e le orchestre sono come i cavalli, come i cavalli di razza, intendo dire: se si accorgono che uno è timido, non corrono; e invece, anche quando sono stanche, basta un buon guidatore per riportarle in carreggiata… “.
Oggi le sue orchestre sono per una meccanica spietata di selezione, soltanto le più grandi ed illustri del mondo: il suo cuore è forse più vicino a quella dell’Opera di Vienna, con cui ha lavorato per tanti anni e molte circostanze famose: ma anche la Berliner Philharmonikerdi trova il lui una sorta di antidoto alle “stregonerie” meravigliose di un Karajan, all’impeto fisico, nevrotico di altri più giovani e già celebri maestri. Per cui se si ascolta a distanza ravvicinata una sinfonia di Bruckner diretta da Karajan o da Mehta, e poi la stessa opera nell’interpretazione di Böhm, si ha la sensazione netta di qualità diverse, di due mondi che si inseguono: e uno quello di Bom, ancora religiosamente legato alle sue “ragioni native”, mentre gli altri vanno avanti a ritrovare nel musicista austriaco i segni di una decadenza che Böhm non sente di convalidare. Troppo è legato all’affetto della sua meravigliosa patria musicale, dove tutto gli sembra cammini senza scosse: da Mozart e Schubert, da Brahms a bruckner, da schoenberg a Berg.
E allora ci si accorge che sotto la il volto del vecchio “Alpenjäger” esiste una verità una vena sentimentale che tenacemente resiste, come per un ultimo, sereno dovere di portare avanti una tradizione che ancora molte cose consolanti da dire. (Estratto, da “Il suo Mozart diverte di più “di Leonardo Pinzauti, 1968)