Richard Strauss (1864 – 1949): “Die Frau ohne Schatten” (1919)

Richard Strauss (Monaco di Baviera 1864 – Garmisch-Partenkirchen 1949)
Die Frau ohne Schatten (La donna senz’ombra) op. 65, opera in tre atti su libretto di Hugo von Hofmannsthal.
Prima rappresentazione: Staatsoper di Vienna, 10 ottobre 1919

Concepita nello stesso periodo dell’Ariadne come si evince dalla già citata lettera del 20 marzo 1911, Die Frau ohne Schatten (La donna senz’ombra) segna uno dei momenti di massimo affiatamento tra i due artisti, nonostante alcune difficoltà in fase di stesura del libretto da parte di Hofmannsthal che, forse un po’ pressato, il 3 giugno 1913 scriveva a Strauss:“Mio caro dr. Strauss, per l’amor del cielo, adesso non sia impaziente con la Frau ohne Schatten –, né Lei né la Sua cara e gentile moglie! – Altrimenti compromette non solo i miei nervi, ma prima di tutto questo lavoro. È un compito tremendamente delicato, infinitamente difficile – più di una volta mi sono trovato in una profonda disperazione, la prima metà del primo atto ormai l’ho riscritta tre volte, dalla prima all’ultima parola – e nemmeno adesso è proprio definitiva” (Hugo von Hofmannsthal-Richard Strauss, Epistolario, Adelphi, Milano, 1953, p. 241)
Il lavoro di Hofmannsthal procedette con tale lentezza che il primo atto, nella stesura librettistica, non fu pronto prima del mese di aprile del 1914, ma fu così meticoloso nella ricerca della perfezione formale che Strauss non poté non dichiararsi entusiasta. In una lettera del 4 aprile 1914 il compositore scrisse:
“Mio caro signor Hofmannsthal!
Il primo atto è semplicemente stupendo e così concentrato e coerente che non potrei immaginare tagliata o cambiata neppure una virgola. Quello che conta per me è trovare un nuovo stile, uno stile semplice che renda possibile presentare la Sua bella poesia agli ascoltatori in tutta la sua purezza e trasparenza […]. Le faccio le congratulazioni più sincere per il risultato bello e perfetto e mi auguro solo che gli atti seguenti siano pari alla seconda metà del primo”. (Ivi, p. 275)
In realtà gli stessi elogi  si ripeteranno anche per il secondo atto, a proposito del quale sempre Strauss scrisse ad Hofmannsthal il 16 luglio dello stesso anno:
“Il 2° atto è meraviglioso, l’arduo problema dell’apparizione del ragazzo è risolto con tatto e sensibilità colossali, le due scene dell’Imperatore e dell’Imperatrice magnifiche e la chiusa dell’atto grandiosa al massimo. Certo è che mi pone un compito assai difficile, e soprattutto non so come venire a capo dei suoi sestetti […]. In ogni caso Ella in vita Sua non ha scritto nulla di più bello e di più compiuto, e voglio illudermi che sia merito mio averLa indotta a ciò attraverso il nostro lavoro in comune. È da sperare che la mia musica sia degna della Sua bella poesia”. (Ivi, p. 295)
Infine il terzo atto, che, sempre nella stesura librettistica, non fu pronto prima del mese di aprile del 1915, pur essendo stato apprezzato dallo stesso Strauss, richiese parecchie revisioni e aggiunte, come si evince da questa lettera del 15 aprile 1915, alla quale il compositore allegò diversi fogli con dubbi, suggerimenti e desideri. La lettera iniziava così:
“Il Suo III atto è splendido: testo, architettura, contenuto ugualmente meravigliosi. Solo che per la ricerca di concisione è venuto troppo scarno: per tutti i passi lirici:

duetto tra Barak e la Moglie
aria di addio della Nutrice
duetto tra Imperatore e Imperatrice e

quartetto finale,

mi serve assolutamente più testo. Non pensieri nuovi, soltanto ripetizioni di un medesimo pensiero con altre parole e arricchito” (Ivi, p. 317).
Le revisioni e le aggiunte si protrassero fino al mese di agosto del 1916, mentre la partitura non fu pronta prima del 28 giugno 1917. Anche in virtù della decisione di Strauss e di Hofmannsthal di non far rappresentare l’opera durante la prima guerra mondiale, Die Frau ohne Schatten vide le scene per la prima volta due anni dopo, il 10 ottobre 1919, allo Staatsoper di Vienna sotto la direzione di Franz Schalk. A proposito della composizione dell’ultimo atto dell’opera e della sua prima rappresentazione lo stesso Strauss scrisse:
La donna senz’ombra, nata fra tanti dolori e pene, fu terminata durante la guerra. Avevo presentato mio figlio Franz come allievo ufficiale presso l’artiglieria pesante di Magonza, ma la bontà e l’umanità di un maggiore bavarese di nome Distler impedirono l’arruolamento anticipato: il suo cuore non aveva tenuto il passo con la grande crescita fisica. Queste preoccupazioni dovute alla guerra produssero soprattutto verso la metà del III atto una certa tensione, che si «allentò» infine nel melologo!
Nell’estate 1918, mentre eravamo ad Aschau nel salisburghese ospiti di cari amici, il cantante da camera Franz Steiner (più tardi eccellente interprete dei miei Lieder in molte tournées che toccarono perfino Bucarest, Stoccolma eccetera) e la signora Nossal, mi giunse dal barone Andrian l’offerta di Vienna, dove La donna senz’ombra ebbe la sua splendida rappresentazione nell’ottobre 1919 sotto la direzione di Schalk (scene di Alfred Roller, regia di Hans Breuer), con una straordinaria compagnia di canto (Imperatore, Karl-Aagaard Oestvig; Imperatrice, la Jeritza; Nutrice; Lucie Weidt; Tintora, Lotte Lehmann; Barak, Richard Mayr). Dopo questo primo grande successo l’opera conobbe un lungo calvario nei teatri tedeschi. Perfino a Vienna fu più spesso annunciata che rappresentata, per via dei ruoli molto faticosi e delle difficoltà scenografiche. Trovò molte difficoltà già subito dopo Dresda, dove era stata così mal preparata scenicamente – la brava Eva von der Osten si era nel frattempo rovinata la voce cantando in parti di soprano drammatico spinto – che dopo la prova generale dovetti pregare il conte Seebach di rimandare la prima di alcuni giorni. Nonostante l’orchestra suonasse in modo splendido sotto la direzione di Fritz Reiner, l’insufficienza della Tintora recò molto danno alla rappresentazione: non ne fui davvero soddisfatto!
Fu un grave sbaglio affidare a teatri medio-piccoli immediatamente dopo la guerra un’opera che presenta molte difficoltà nella scelta dei cantanti e ha così forti esigenze sceniche. Quando più tardi vidi, una volta soltanto, l’allestimento “da dopoguerra” (“a costi ridotti”) di Stoccarda, compresi che in queste condizioni l’opera non poteva avere granché successo. Ma da ultimo si è affermata e ha suscitato enorme impressione soprattutto quando è stata eseguita a Vienna e a Salisburgo (Krauss-Wallerstein) e da ultimo a Monaco (Krauss-Hartmann-Sievert): chi abbia sensibilità artistica la giudica il mio lavoro migliore” (R. Strauss, Note di passaggio, Riflessioni e ricordi, a cura di S. Sablich, EDT, Torino 1991, pp. 143-144). Come ricordato da Strauss l’opera non è entrata facilmente nel repertorio sia per la scrittura vocale ardua e complessa dal momento che richiede delle voci dalla notevole estensione soprattutto per la parte dell’Imperatore e per quella dell’Imperatrice, un soprano drammatico quest’ultimo con incursioni sul registro acuto (un re acuto nell’a solo del I atto), sia per le difficoltà di messa in scena, dovute a magie, apparizioni e continui cambi di scena appunto. In Italia, l’opera, la cui rappresentazione fu fortemente voluta da Mussolini, approdò alla Fenice di Venezia nel 1934 con l’orchestra dell’Opera di Stato di Vienna diretta da Clemens Krauss, mentre per la prima al Metropolitan Opera House di New York si dovette attendere il 1966 quando fu rappresentata sotto la direzione di Böhm con Leonie Rysanek, James King, Christa Ludwig, Walter Berry.


L’opera 
(Il libretto)
Atto primo
Su un tetto piatto sopra i giardini imperiali delle immaginarie isole Sudorientali, la Nutrice, immersa in una fiabesca ma al tempo stesso nera atmosfera notturna resa dal breve incisivo Leitmotiv iniziale affidato al timbro scuro delle tube, scorge un vivido splendore (Ein fließender Glanz). Si tratta del messaggero di Keikobad, che, delineato da Strauss con sonorità cupe accentuate dalla ripresa in orchestra del Leitmotiv iniziale, rivolge alla nutrice una semplice domanda: Wirft sie einen Schatten? (Getta un’ombra?) riferendosi all’Imperatrice e chiedendo così se la donna è incinta. La Nutrice, la cui parte misteriosa è caratterizzata da una scrittura melodica frastagliata, piena di salti proibiti e non lineare, accompagnata da un’armonia che tende all’atonalità, pur nei timbri chiari dei violini primi divisi, risponde di no, mentre il Messaggero con un tono cupo le rimprovera di aver fatto fuggire dalla sua guardia l’Imperatrice, una creatura spirituale che, mostratasi all’Imperatore inizialmente sotto forma di bianca gazzella, era diventata sua sposa. La Nutrice, da parte sua, cerca di giustificarsi (Von der Mutter her / Dalla madre sua) e al messaggero, che le chiede di vederla (Laß mich sie sehn! / Fa’ che la veda), risponde, in una scrittura lirica quasi di carattere liederistico se non fosse per la durezza di certi intervalli, come la nona discendente, che tradiscono ancora una volta l’essenza misteriosa del personaggio, affermando che in quel momento la donna si trova in compagnia dell’Imperatore che trascorre con lei ogni notte e la lascia allo spuntare dell’alba per andare a caccia. Il Messo ricorda, con tono quasi oracolare, che restano all’Imperatore solo tre giorni per fare in modo che la donna rimanga incinta. Raggelante è l’atmosfera che si crea quando la Nutrice chiede al Messo cosa sarà dell’Imperatore; questi risponde, su pietrificanti note tenute dai tromboni, che sarà trasformato in pietra. Sparito il messaggero con le prime luci dell’alba, entra in scena l’Imperatore che, distinguendosi sin dalle prime battute per le sue caratteristiche di tenore eroico, dà vita ad un lungo monologo (Bleib und wache/ Resta e veglia) nel quale sono riconoscibili momenti di intenso lirismo. L’Imperatore, che come ogni giorno all’alba, si è da poco congedato dalla sua sposa, va a caccia e dice alla Nutrice che non sarebbe ritornato prima di tre giorni, dal momento che aveva intenzione di recarsi sui Monti della Luna, luogo particolarmente distante dove un giorno aveva incontrato la moglie sotto le sembianze di una bianca gazzella. All’interno del monologo l’Imperatore rievoca il suo incontro con la moglie, che gli sarebbe facilmente sfuggita, se non fosse stato per il suo rosso falcone che le aveva ferito con le ali i suoi dolci occhi. Raggiunta dall’Imperatore e in procinto di essere trafitta da un colpo mortale, la gazzella si trasformò, allora, in una bellissima donna. L’uomo, infuriatosi contro il suo falcone, gli scagliò il pugnale ferendolo leggermente e ora, preso da rimorso, avrebbe voluto incontrarlo per espiare questa sua colpa. Proprio la rievocazione di questo incontro costituisce la parte più intensa e lirica di questo monologo con un tema, che ritornerà in seguito nel corso dell’opera; questo tema, in una forma rielaborata e perorato a piena orchestra alla fine dello stesso monologo, lo conclude in un’epifania di luce musicale che si contrappone alle tenebre, le quali, annunciate da elementi tematici introdotti all’inizio dell’opera, ritornano inquietanti ancora una volta nelle parole della Nutrice: Fort mit euch! / Ich höre die Herrin! / Ihr Blick darf euch nicht sehen! (Andatevene! / Sento la signora! / Non vi deve scorgere il suo sguardo!).
Subito dopo entra in scena l’Imperatrice in una nuova epifania di luce resa da una scrittura cameristica con il violino e il violoncello solisti che, accompagnati dall’arpa e dalla celesta, intessono un dialogo a cui partecipa, con funzione onomatopeica, quasi a voler rappresentare il verso degli uccelli, il clarinetto. In questa scrittura cameristica s’inserisce il monologo dell’Imperatrice (Ist mein Liebster dahin / Se è via il mio amato) che, dopo aver lamentato la perdita del talismano grazie al quale riusciva a trasformarsi in animale, scorge proprio quel falcone rosso che le aveva permesso di incontrare suo marito. Mentre la donna lo contempla, onomatopeiche acciaccature sembrano dare forma al suo verso e sottolineare le terribili parole del falcone: Wie soll ich denn nicht weinen? / Wie soll ich denn nicht weinen? /Die Frau wirft keinen Schatten,/ der Kaiser muß versteinen! (Ma come posso non piangere? / Ma come posso non piangere? /La donna non getta ombra, / L’imperatore deve pietrificarsi!). La richiesta dell’Imperatrice alla sua Nutrice (Amme, um alles, / wo find‘ ich den Schatten? / Nutrice, ti scongiuro, / dove trovo l’ombra?) produce un cambio di atmosfera. La Nutrice, in una scrittura agitata e su un’instabile armonia cromatica che esprime tutta la sua ripugnanza, risponde che l’unico modo possibile per ottenere l’ombra sarebbe quello di scendere tra gli umani e si affretta a dissuaderla da questa impresa. Costei, sorda a quei consigli e pur condividendo il sentimento di orrore, continua, tuttavia, a ripetere Ich will den Schatten! (Voglio l’ombra); scende, così, nel mondo degli umani accompagnata dalla Nutrice mentre l’orchestra illustra questo loro viaggio con un interludio estremamente agitato nel quale ritornano i temi precedentemente esposti in una forma rielaborata.
Collegata alla precedente da questo interludio orchestrale che illustra la caduta dal cielo sulla terra, qui rappresentata da sonorità pesanti, la seconda scena si svolge nella casa del Tintore dove lo Storpio cerca invano di separare il Monco e l’Orbo che stanno litigando (Dieb! Da nimm! / Unersättlicher Nehmer! / Ladro! Prendi / Insaziabile ghiottone!); a questo punto interviene la moglie del Tintore che, dopo aver gettato su di loro una tinozza d’acqua, chiede al marito Barak di cacciarli via di casa sotto minaccia di lasciarlo. La donna, rimasta sola con il marito, insiste perché questi cacci via di casa i fratelli, ma l’uomo, ribadendo che non può cacciarli essendo stati allevati come lui in quella casa, rinfaccia alla moglie, senza particolare acrimonia e in una scrittura estremamente ieratica, il fatto che questa, in due anni di matrimonio, non gli abbia ancora dato un figlio. L’uomo, dopo aver espresso tutto il suo desiderio di paternità in un a solo d’intenso lirismo (Gib du mir Kinder, daß sie mir hockey / um die Schüsseln am Abend / Dammi dei figli che mi siedano / intorno ai piatti di sera), si accosta per accarezzare la moglie che si volta dall’altra parte, mentre l’orchestra si produce in rapide scale cromatiche discendenti che sembrano erigere un muro tra i due coniugi. Nessun accorgimento magico è valso a dare alla coppia un figlio, come la stessa moglie ricorda al marito (Dritthalb Jahr / bin ich dein Weib / da due anni e mezzo / sono tua sposa). Questi, che non sembra arrendersi all’evidenza, lascia sola la moglie, che, con grande sorpresa, si ritrova in casa la Nutrice e l’Imperatrice entrate senza aver attraversato la porta. La Nutrice, per convincere la donna a vendere la sua ombra all’Imperatrice, la blandisce (Ach! Schönheit ohnegleichen! / Ah! Bellezza senza pari!), facendole capire che la sua bellezza è sprecata in quel luogo, ma questa, diffidente nei confronti della Nutrice il cui canto presenta delle aperture liriche che sembrano rappresentare una realtà trascendente la miseria in cui vive, appare sorpresa dalla richiesta. Alla fine la Nutrice, per ottenere il suo scopo, dona alla donna un prezioso nastro di perle e pietre preziose, del quale, però, non può apprezzare la bellezza non avendo uno specchio. Un incantesimo, prodotto anche dalla musica con trilli acuti degli archi, arpe, celesta e legni, produce un nuovo cambio di scena nella quale la donna si trova in un magnifico padiglione, dimora di una principessa, dove viene accolta da ancelle (Ach, Herrin, süße Herrin! Aah! / Ah signora, dolce signora! Aah!). Qui la voce dell’Imperatrice e quella di un giovinetto cercano di convincerla, con un lirismo suadente, a vendere la sua ombra in cambio di quella bella e vanitosa immagine riflessa dallo specchio. La donna non si lascia convincere, affermando che, anche se volesse vendere la sua ombra, non saprebbe come staccarla. Questo breve suo intervento lirico fa dissolvere l’incanto e la cruda realtà, rappresentata dalla quotidiana cura del focolare domestico, prende forma grazie a un tema affidato ai tromboni. Adesso la moglie del Tintore è proiettata di nuovo nella quotidianità, rappresentata dai doveri nei confronti del marito che sta per rincasare e al quale deve preparare la cena e il letto. La Nutrice le fa notare che non è sola, dal momento che ci saranno loro a servirla con le arti magiche. Ecco, infatti, che un colpo di vento attraversa la stanza e cinque pesciolini nuotano nell’olio, mentre si odono, su delle rapide scale degli archi, le voci di cinque bambini che chiedono di entrare. Non si capisce se queste voci sono reali o una proiezione dell’inconscio della moglie del Tintore che si sente arsa interiormente da un fuoco che la strugge come l’agitato tema del breve brano sinfonico al termine del quale si sente la voce di Barak appena rientrato. L’uomo si compiace del profumo proveniente dalla cucina, ma si meraviglia per la posizione del suo letto e soprattutto per la decisione della moglie di non mangiare con lui. Mentre in orchestra risuona rielaborato il breve tema iniziale, la donna lo informa che vivranno con loro due nuove serve; dall’esterno la voce dei guardiani, solenne in una scrittura da corale, inneggia ai valori dell’amore coniugale del quale è esaltata la fecondità capace di superare la morte. L’atto si conclude disegnando in pianissimo una celestiale e serena atmosfera.
Atto secondo
Dopo una brevissima introduzione strumentale che si distingue per una scrittura contrappuntistica all’interno della quale emerge un tema di carattere cromatico già ascoltato nel primo atto, la Nutrice, che si trova insieme all’Imperatrice nella casa del Tintore, discute, sempre su un’armonia complessa che rasenta i limiti dell’atonalità ma anche su sonorità acute che alludono ad un’atmosfera magica, con la moglie di quest’ultimo (Komm bald wieder nach Haus, mein Gebieter / Ritorna a casa presto, padrone mio) a riguardo di un giovanotto che la donna avrebbe incontrato furtivamente. La moglie del Tintore vorrebbe mantenere nascosta questa sua infatuazione, ma la Nutrice fa apparire con una magia il giovinetto, mentre un coro, in una scrittura prevalentemente omoritmica, espone una meditazione sulla caducità della felicità. L’imperatrice è in una grande agitazione resa da veloci scale e accentuata dall’arrivo di Barak che induce la Nutrice a far sparire il giovinetto. La presenza del Tintore, come nel primo atto, è resa da una scrittura pesante che caratterizza spunti tematici già sentiti all’inizio della seconda scena e qui rielaborati. L’uomo, dopo aver dato vita insieme ai fratelli a un breve bozzetto quasi da opera comica, dà qualcosa da mangiare a dei piccoli mendicanti prima di offrire alla moglie dei dolci. Questa, in una scrittura agitatissima, costituita da ribattuti che sembrano delle martellate e si contrappongono alle liriche e serene arcate che hanno caratterizzato la parte precedente del marito, s’infuria (Meine Pantoffel in dein Gesicht, du Schleichende! / La mia pantofola sulla tua faccia, / o lenta!), mentre la scena si conclude in un’atmosfera allegra con i Fratelli che, dopo aver ironizzato sul comportamento femminile, esaltano il fratello maggiore il quale elargisce con generosità la propria roba ai fratelli e ai bambini.

Un nuovo interludio strumentale, costruito su temi già ascoltati nell’atto precedente, conduce alla scena successiva dove onomatopeici mordenti affidati agli strumentini, già utilizzati nella prima scena dell’atto primo per rappresentare il falcone, introducono il pubblico nel nuovo ambiente costituito dalla casa del falconiere imperiale. È questa una breve pagina strumentale nella quale emerge la voce del violoncello solista che si produce in un breve a solo di carattere cadenzante da cui scaturisce un lirico tema all’interno di una scrittura cameristica. Protagonista della scena è l’Imperatore che inneggia al Falcone (Falke) appena ritrovato producendosi in un lirismo quasi di carattere liederistico su un raffinatissimo accompagnamento orchestrale nel quale, insieme alla voce del primo violoncello, emergono onomatopeici disegni degli strumentini che richiamano il verso del Falcone.
Un nuovo cambio di scena riconduce l’azione all’interno della casa del Tintore dove l’uomo, che vorrebbe andare a lavorare, è preso da un profondo sonno indotto da un potente sonnifero utilizzato dalla Nutrice. L’ambientazione musicale cambia notevolmente in quanto il lirismo, che ha contraddistinto il monologo dell’Imperatore, è sostituito da una scrittura più “prosaica” che rappresenta bene le ambage della vita quotidiana. La donna appare sconvolta dall’azione della Nutrice alla quale non ha ordinato di fare ciò e si precipita verso Barak già preso dal sonno. La Nutrice, al contrario, cerca di convincere la donna della bontà del suo operato e, alla fine, fa apparire il giovinetto (Wer tut mir das / Chi fa sì), che, insieme alle due donne, dà vita a un terzetto quasi da opera romantica in una scena magica nella quale l’uomo cade svenuto, mentre la donna, quasi incosciente, dice di averlo sognato tra incessanti baci. Destatosi per il baccano, Barak (Was schlief ich so schwer? Wer rüttelt mich auf? / Perché dormii sodo così? Chi mi scuote?)sembra ricondurre tutti alla realtà con la sua voce bassa. Il dialogo tra i due coniugi, caratterizzato musicalmente da Leitmotiv già utilizzanti in precedenza, verte soprattutto sul rimprovero fatto dalla donna al marito perché preso dal sonno non avrebbe custodito la sua casa. L’uomo, da parte sua, è sorpreso perché non ha trovato il suo mortaio inspiegabilmente in pezzi; il colloquio, però, assume contorni drammatici quando la donna minaccia l’uomo, impegnato a raccogliere da terra i suoi arnesi di lavoro, che un giorno potrebbe anche non ritrovarla più a casa. Alla fine della scena la Donna va via insieme con la Nutrice lasciando solo il marito con l’Imperatrice, della cui presenza egli si accorge solo in quel momento.
Un altro interludio orchestrale di elevata fattura contrappuntistica e intriso di estenuati cromatismi accompagna un altro cambio di scena. Adesso l’azione si svolge all’interno della camera da letto dell’Imperatrice nella casa del Falconiere, dove la donna, ancora in uno stato di dormiveglia, sembra quasi delirare (Sieh – Amme – sieh / des Mannes Aug‘, wie er sich quält! / Vedi – nutrice – vedi / l’occhio dell’uomo come si tormenta!) ricordando fatti della scena precedente in una scrittura ampiamente sinfonica all’interno della quale, come spesso accade nelle opere di Strauss, la voce è trattata quasi come uno strumento dell’orchestra. L’onomatopeico tema del Falcone introduce ancora una volta l’animale che questa volta ricorda la terribile maledizione: dal momento che l’Imperatrice non getta ombra, l’Imperatore sarà presto tramutato in pietra non prima che un coro metta in relazione la vita e la morte in modo ossimorico. Subito dopo in una mirabile sintesi ritornano in orchestra i Leitmotiv principali quasi a riassumere in breve il dramma che si sta consumando, mentre l’Imperatrice si produce in un monologo (Wehe, mein Mann! / Ahimè, il mio sposo!) nel quale piange la sorte toccata al suo sposo per causa sua. In questa pagina la disperazione trova accenti drammatici che non le permettono quasi mai di librarsi in un vero e proprio canto spiegato.
Un altro brevissimo interludio strumentale accompagna l’ennesimo cambio di scena che riconduce il pubblico ancora nella casa del Tintore in una continua alternanza tra mondo fantastico e mondo reale. Qui Barak percepisce che sta avvenendo qualcosa di strano trascendente la natura (Es dunkelt, daß ich nicht sehe zur Arbeit / mitten am Tage. / Si fa scuro, e a metà del giorno / io lavorando non vedo); la musica rende tutto ciò attraverso un’armonia instabile e con frammenti tematici che costruiscono un’atmosfera di mistero. La Nutrice conferma che ci sono delle forze soprannaturali che stanno guidando le sorti umane, mentre l’Imperatrice appare quasi pentita per aver sconvolto la già travagliata vita degli uomini. Dopo una pagina quasi “concertata” nella quale i personaggi esprimono ciascuno il suo pensiero, la moglie del Tintore confessa in un drammatico monologo il suo tradimento con il giovinetto e aggiunge che non gli avrebbe mai dato un figlio perché aveva venduto la sua ombra. Barak, sconvolto, non riesce a cantare e affida a un passo recitato il suo pensiero: Das Weib ist irre, /zündet ein Feuer an, / damit ich ihr Gesicht sehe! (La donna è pazza, / accendete il fuoco, / che io veda il suo volto!). A un grande momento di agitazione, nel quale tutti si accorgono che quanto detto dalla donna a proposito dell’ombra è vero, segue la richiesta di quest’ultima rivolta a Barak, in una pagina in cui si possono rilevare anche accenti lirici, di ucciderla, in quanto la sua bocca prima ancora della sua anima fu traditrice. L’uomo vorrebbe trafiggerla con una spada comparsa nell’aria, ma è commosso dalle parole della moglie, mentre l’atto si conclude in una profonda agitazione e nella coscienza che l’uomo non può opporsi alle forze superiori richiamate ancora una volta dalla Nutrice.
Atto terzo
Una brevissima introduzione orchestrale di carattere scuro, soprattutto per la strumentazione utilizzata da Strauss che privilegia il suono cupo del fagotto, si configura come una stringata sintesi dei due atti precedenti riprendendone i tre Leitmotiv principali: il primo, affidato al timbro cupo del fagotto, presenta il tema di apertura dell’atto secondo; il secondo corrisponde al brevissimo motivo con cui si era aperta l’opera e, infine, il terzo è quello delle voci dei bambini non nati che rimproverano alla Tintora, quasi materializzandosi nel suo inconscio, il suo rifiuto della maternità. Nella scena iniziale dell’atto la moglie del Tintore che, in una pagina di forte sapore wagneriano per gli estenuanti cromatismi che richiamano anche atmosfere tristaniane, esprime il suo pentimento per le azioni precedentemente commesse (Schweigt doch, ihr Stimmen! / Tacete dunque, o voci!). In questa bellissima pagina, nella quale la donna sembra prendere coscienza delle sue azioni e soprattutto dei limiti imposti alla sua natura e che aveva cercato di superare rimanendone schiacciata, non mancano nemmeno accenti di commosso lirismo che trovano un perfetto pendant nell’armonia che si distende in classiche cadenze dominante-tonica. Un lirismo quasi di carattere liederistico contraddistingue anche la parte di Barak il quale, invocato dalla moglie, è separato da quest’ultima per uno strano artificio magico. Anche l’uomo esprime il suo pentimento per non aver curato la moglie a dovere (Mir anvertraut / A me affidata). I due coniugi, separati da una magia nera, sono uniti, tuttavia, da un’altra magia, quella della musica e del contrappunto che li fa duettare. Annunciata dalle trombe, una voce dal cielo ordina di salire in alto a Barak che, avvolto da una fascio di luce, ascende attraverso una scala a chiocciola. La donna invoca il marito, ma subito dopo ne condivide la sorte e anche lei è invitata a salire verso l’alto.

Un ulteriore interludio orchestrale accompagna il nuovo cambio di scena: il sotterraneo, teatro della scena iniziale, sprofonda per lasciare il posto a una terrazza rocciosa simile a quella già vista dal pubblico nella scena del sonno dell’Imperatrice. Si scorge anche l’ingresso di un imponente edificio assimilabile ad un tempio. Voci di spiriti annunciano, all’interno di un breve preludio, l’arrivo della Nutrice e dell’Imperatrice. La prima, sempre su una scrittura armonica particolarmente complessa con il tema iniziale in sottofondo, guida l’Imperatrice che scorge un portone familiare (Hier ist ein Tor! / Ecco un portone!). In esso le sembra di riconoscere infatti quello del palazzo di suo padre che amministrava la giustizia come Salomone. La donna vorrebbe varcare quella soglia nonostante il parere contrario della Nutrice che cerca di dissuaderla in un drammatico dialogo nel quale tornano in orchestra i Leitmotiv principali della prima scena del primo atto. L’Imperatrice, ormai decisa a separarsi dalla sua Nutrice (Amme, auf immer / scheid‘ ich mich von dir /Mutrice, per sempre / Mi separo da te), manifesta questa sua intenzione, in una pagina inizialmente estremamente raffinata con gli strumenti solisti che dialogano con la voce, prima di librarsi in un passo grandioso ancora una volta di ascendenza wagneriana. La Nutrice, che avrebbe voluto seguirla, non se la sente, ma per lei la sentenza è ormai scritta ed è pronunciata dal Messo: la donna sarà costretta a vagare per sempre tra gli uomini che lei disprezza.
Il teatro della scena successiva è un tempio che si illumina a vista. Voci di spiriti accolgono l’Imperatrice che, quasi dialogando con un violino solista, invoca il padre dopo aver capito la sua grave colpa, consistente nella ricerca di una maternità in modo illecito. La donna è ormai purificata e le limpide sonorità orchestrali, come l’acqua della vita, con la quale vuole dissetarsi (Goldenen Trank, Wasser des Lebens / Bevanda dorata, / acqua della vita), sembrano rappresentare questa sua nuova condizione accentuata dalla scrittura intrisa di lirismo che contraddistingue la sua parte. Una voce dall’alto la invita a bere, ma, come affermato da voci ultraterrene in un’atmosfera misteriosa, la donna non getta ancora ombra. In lei, mentre distrutta sussurra Ich – will – nicht! (Io – non – voglio), si produce il miracolo: la donna getta l’ombra e l’Imperatore, che si alza dal suo trono per contemplare ciò che è appena accaduto in un pagina di intenso lirismo, è salvo. In questo tripudio di gioia si odono anche le voci dei Non Nati che finalmente possono vedere la luce e intonano un corale quasi a marcare una religione laica della vita. La gioia può trionfare nella ripresa del lirico tema che aveva contraddistinto la prima apparizione dell’Imperatore sulla scena e che qui informa l’interludio che accompagna l’ultimo cambio di scena costituita da un bel paesaggio nel quale la moglie del Tintore finalmente lo incontra. Anche per loro si è operato il miracolo con la purificazione della donna, che ha compreso il valore dell’affetto semplice ma sincero di Barak il quale felice inneggia all’amore e al lavoro (Nun will ich jubeln, wie keiner gejubelt / Ora voglio esultare come nessuno esultò). Nello splendido concertato Finale le due coppie ormai ricongiunte inneggiano all’amore accompagnate anche da celestiali arpe su un’armonia piana e lontana dai cromatismi che contraddistinguono altre parti dell’opera. Le voci dei bambini non nati, in un infantile tripudio di luce, conducono al dolcissimo e puro finale su un riposante accordo di do maggiore.