Giovanni Paisiello (1740-1816): “Fedra” (1788)

Dramma per musica in due atti su libretto di Luigi Bernabò Salvoni, elaborazione del libretto originale di Carlo Innocenzo Frugoni. Prima rappresentazione: Napoli, Teatro di San Carlo, 1 gennaio 1788.
Fedra
, dramma per musica di Giovanni Paisiello, settantesima opera dell’autore della Nina, del Barbiere e della Molinara, appartiene certamente alla piena maturità del suo autore, quando, dopo il periodo giovanile e soggiorno russo al servizio di Caterina II, dal 1776 al 1784, il musicista si stabilì pressoché ininterrottamente a Napoli. In questo il suo itinerario estetico rovescia in qualche modo il cliché consueto, dell’operista italiano, che approda in terra straniera solo al culmine della sua carriera, quella dei Rossini, dei Donizetti, dei Bellini, per intenderci. Una serie di fortuite coincidenze lo porto ben presto a San Pietroburgo, permettendogli quindi di allargare i propri orizzonti, aprendoli  ad istanze che, appena tornato in patria, germineranno lentamente. Nel grande periodo napoletano i titoli seri affrontati già prima del soggiorno russo a partire dal 1767 con “Lucio Papirio dittatore”, ma con una sorta di prudenza si infittiscono sempre di più, sintomo di una crescente sensibilità per un genere melodrammatico che portava in sé i germi destinati a sviluppi fecondi.
Rappresentata al San Carlo l’1 gennaio del 1788, con “applauso indicibile”, come riportò allora la “Gazzetta Universale”, la Fedra ebbe al suo battesimo almeno tre grandi  stelle dei teatri dall’allora: nel ruolo di Teseo, il tenore Giacomo David (padre di Giovanni, uno dei tenori rossiniani per eccellenza), in quello di Aricia, Brigida Banti Georgi (definita da Castil Blaze “la virtuose du siècle” e dell’imperatore Giuseppe II “la più bella voce di Europa” ), mentre diede voce a Ippolito, il figliastro di Fedra, L’ultimo dei grandi castrati, Giovanni Crescentini (il giovane Schopenhauer scrisse: “la sua voce, bella in modo soprannaturale, non può venire paragonata a quella di nessuna donna: non vi può essere timbro più pieno e più dolce e pur nella sua purezza argentina egli raggiunge una potenza indescrivibile”). Il dramma per musica fu affiancato, come consuetudine del ballo “il soldato per amore” con musica di autore ignoto, con la coreografia di Sebastiano Gallet e la celebre Eleonora Duprè.
Era dunque il 1788, virgilia di rivoluzione, in qualche modo un anno capitale anche per il melodramma italiano “esportato” in terra francese, destinato a trasformarsi attraverso l’idioma teatral musicale di oltralpe: in quello stesso anno, il Démophoon (cui seguirà la Lodoiska) di Luigi Cherubini segna una strada personalissima, carica di potenzialità drammaturgiche, che vedrà le sue filiazioni lontano da un’Italia che cedeva Rossini all’orizzonte. Tuttavia anche per gli operisti fortemente ancorati all’Italia e alla sua tradizione di marca partenopea, la Francia costituisce in quello scorcio di secolo un polo di attrazione, sia per l’influenza dei soggetti sia per indiretto riverbero delle esperienze d’ascendenza gluckiana. La stessa Fedra si inserisce di diritto in un clima culturale che solo in apparenza è marginale rispetto alla prima e alla preminente vocazione giocosa del suo autore. La caratteristica dei melodrammi più atipici rispetto al filone propriamente napoletano ma protesi verso una storicità emergente di marca europea, è proprio il tendere la mano verso il gluckismo e i francesismi, con soggetti che discendono dalla grecità, un impianto a spesso connotato in senso mitologico e, musicalmente, con larghi spazi coralie di danza.
In particolare il libretto si innesta sul filone della cultura d’oltralpe e sulle frange più innovatrici dell’operaismo italiano. Unico melodramma scritto da un certo Salvoni per il musicista, e infatti una rielaborazione dell’Ippolito ed Aricia, del genovese Carlo Innocenzo Frugoni, rappresentata nel 1759 al Teatro Ducale di Parma per le musiche di Tommaso Traetta, a sua volta derivato del primo grande successo di Jean-Philippe Rameau appunto Hippolyte et Aricie, dell’Abate Simon Joseph Pellegrin (1733), matrice comune la Fedra di Racine (1777)e, infine, la tragedia euripidea. Anche senza soffermarsi sull’evidenza di simile richiami alla tragedia di di marca francese, giova sottolineare la continuità con la poetica traettiana, non a caso considerato  l’alfiere di una riforma omologa a quella gluckiana. Coincidenze o semplici passaggi d’obbligo delle mode culturali? Sarebbe un errore sposare il luogo comune che dipinge i nostri operisti come sprovveduti “dialettofoni”, ignari dell’evolversi delle culture europea e vittime della routine teatrale. In realtà, lo stesso “cortigiano” Paisiello fu tutt’altro che indifferente alle spinte che provenivano dal melodramma europeo, anche a prescindere dell’esito finale della Proserpina (1803), tragédie lyrique in tutto e per tutto (nata più per dovere verso il suo protettore Napoleone, che per una reale volontà di battere alle estreme conseguenze le strade dell’Opera francese).

Diverse circostanze, certo non casuali, confermano tale tendenza: ancora sul fronte gluckiano, la collaborazione di Paisiello con Calzabigi (Elvira nel 1794 ed Elfrida nel 1796); sul versante formale e strutturale, il largo impiego dei recitativi accompagnati fin dal 1780 con Alcide al bivio, scritta per San Pietroburgo; l’introduzione per la prima volta dei finali da atto “d’azione”, derivati dall’opera buffa, nel Pirro (Napoli, 1787), un’innovazione destinata costituire uno dei fulcri drammaturgici dell’operaismo ottocentesco; la mancanza di assolo per i personaggi secondari (le cosiddette arie dei sorbetto) nella medesima Elvira. Tutte operazione – superfluo sottolinearlo – che puntano alla rivitalizzazione drammatica e d’altro canto alla ricerca di un continuum narrativo, con una più snella individuazione del climax.
Ecco dunque che un melodramma come Fedra, travolto come decine di altri dal mare magnum della produzione settecentesca, inserito all’interno di una serie di valenze europee può acquistare significazioni che ne evidenziano sia la cifra letteraria che quella musicale. Significazioni che tuttavia restano in gran parte enigmatiche: l’incombenza della decifrazione spetta tuttora l’ascoltatore allo studiosocontemporaneo, l’uno e l’altro colpevoli, per ragioni ovviamente diverse, di avere espunto in blocco dall’immaginario melodrammatico moderno l’universo (peraltro esplorabiliissimo) dell’operismo serio del Settecento. (Roberto Di Perna, 1989)