Gioachino Rossini (1792-1868): “Zelmira” (1822)

Dramma in due atti su libretto di Andrea Leone Tottola, dalla tragedia “Zelmire” di Dormont de Belloy (Pierre-Laurent Buirette). Prima rappresentazione: Napoli, Teatro San Carlo, 16 febbraio 1822.
Primi interpreti:
Isabella Colbran (Zelmira)
Antonio Ambrosi (Polidoro)
Giovanni David (ilo)
Andrea Nozzari (Antenore)
Anna Maria Cecconi (Emma)
Michele Benedetti (Leucippo)
Gaetano Chizzola (Eracide)
Massimo Orlandini (Gran Sacerdote)
Rossini era ormai stanco esaurito, ma se doveva sacrificare un’opera, concentrava poi le sue forze su un’altra. Questa fu Zelmira, scritta nel 1822 per Napoli, ma impegnata successivamente dal Barbaja anche per Vienna, dove si recò pure Rossini ed ebbe accoglienze entusiastiche.
Sapendo di dover affrontare un pubblico d’oltralpe, in una città di cultura oltre che operistica anche sinfonica, Rossini tira fuori tutta la sua “scienza”.Il soggetto lo riportava possibilità di evidenziazioni  drammatiche e realistiche, attraverso il discorso strumentale e il “declamato” come nell‘Ermione. (…)
L’opera si apre senza Overture nel pieno dell’azione: guerrieri che fuggono, scontri disordinati, espressi da una viva introduzione strumentale. La cavatina di Antenore, “Che vidi! Amici!”, e il coro seguente afferrano subito l’ascoltatore per quell’impulso ritmo- melodico che evidenzia ormai in modo inconfondibile il linguaggio drammatico di Rossini. (…)

Notevole il canto spianato nell’aria di Polidoro, “Ah! già trascorre il dì”, pieno di affanno e in quei ritmi spezzati che ritroveremo nella parte di Anaide nel nuovo Mosè e in quella di Guglielmo nel Tell. Il  recitativo è ampio e incisivo, con raffinatezza nello strumentale e nell’armonia e persino un uso ricercato di effetti contrappuntistici. Tuttavia i vocalismi eccessivi (impenitenti nel “gusto” napoletano), compromettono spesso anche le più belle intuizioni melodiche con cui si aprono le arie, i duetti e gli insieme, come il finale dell’atto primo (coro, terzetto, e stretta vigorosa) che ebbe successo a Vienna, così pure il duetto tra Ilo  e Polidoro, “In estasi di gioia”, col quale si apre l’atto secondo, e un successivo quintetto (con progressioni armoniche audaci per quei tempi, tra cui un bel gruppo di “quinte” consecutive). La scena del sotterraneo nella necropoli è esemplare per la sua sintetica incisività; il finale però, come spesso, condizionato dall’obbligatorio “rondò”, suona come raffazzonato, tanto per concludere l’opera. (estratto da “Gioachino Rossini” di Luigi Rognoni, Torino, 1977)