Milano, Teatro alla Scala: “Salome”

Milano, Teatro alla Scala, stagione lirica 2021-21
SALOME”
Dramma in un atto su testo di Oscar Wilde nella versione tedesca di Hedwig Lachmann
Musica di Richard Strauss
Herodes GERHARD SIEGEL
Herodias LINDA WATSON
Salome ELENA STIKHINA
Jochanaan WOLFGANG KOCH
Narraboth ATTILIO GLASER
Un paggio di Herodias LIOBA BRAUN
Sei giudei MATTHÄUS SCHMIDLECHNER – MATTHIAS STIER – PATRICK VOGEL – THOMAS EBENSTEIN – ANDREW HARRIS
Due nazareni THOMAS TAZTL – MANUEL WALSER
Due soldati SORIN COLIBAN – SEJONG CHANG
Un cappadoce PAUL GRANT
Uno schiavo CHUAN WANG
Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Coreografia Thomas Wilhelm
Milano, Teatro alla Scala, 20 febbraio 2021 (diretta RAI 5 e streaming)
Prevista per lo scorso anno arriva finalmente sul palcoscenico scaligero la nuova produzione di “Salome” che nel corso d’opera ha subito un cambio significativo, al previsto Zubin Mehta, costretto a rinunciare per problemi di salute è subentrato Riccardo Chailly che si è fatto carico di dirigere la produzione.
Pur subentrato in corso dopo il maestro milanese ha fornito una valida prestazione, mostrandosi più a suo agio in questo repertorio che in certi titoli dell’opera italiana dove ci è parso talvolta poco incisivo. Chailly coglie di “Salome” soprattutto la bellezza sonora, il gioco dei colori, lo splendore dell’orchestra. Chailly fa cantare l’orchestra scaligera in modo meraviglioso, esalta le meravigliose melodie che Strauss sparge anche in quest’opera, sfuma i colori e si abbandono ai ritmi di valzer che costellano la partitura. Una lettura di grande fascino sonoro anche se a mancare è il senso di disfacimento,  i sentori di corruzione morale e tonale, mancano le cupe ebrezze di eros e thanatos. In Chailly è tutto troppo univoco, troppo rigoroso, troppo “sano”.  Resta  un senso di mancanza a tale riguardo anche se è innegabile che Chailly abbia un’idea molto precisa di quest’opera e la persegua con grande coerenza e rigore.
La resa musicale è agevolata da una compagnia di canto complessivamente notevole. Una delle poche note “stonate”  viene dallo Jochannan di Wolfgang Koch.  Voce  importante ma dell’emissione poco controllata, specie in acuto, a tratti tendente all’urlo.
Rivelazione dello spettacolo la giovane Elena Stikhina nei panni della protagonista.  Soprano russo poco più che trentenne e praticamente sconosciuta in Italia la Stikhina sfoggia un timbro chiaro, luminoso, quasi adolescenziale che si adatta perfettamente alla personalità di Salome e alla sua forza seduttiva naturale e inconscia. La voce sembra avere una buona robustezza e dall’ascolto televisivo non mostra particolari problemi a svettare sul ricco tessuto orchestrale. Particolarmente sicuro il settore acuto mentre in centro si coglie qualche difficoltà, che porta la cantante a scivolare in qualche eccessivo “parlato”. Sul piano espressivo, attendendo un pieno dominio del ruolo, mostra buone qualità anche interpretative, a cominciare dalle espressioni del viso e degli occhi particolarmente in risalto in uno spettacolo pensato per la diffusione televisione,  con lunghi indugi sul viso della protagonista.
Gerhard Siegel è un Herodes impeccabile sotto ogni punto di vista, magistrale nel tratteggiare un personaggio nevrotico e superstizioso, crudele per noia, vittima delle proprie ossessioni Manca forse la terribilità del tiranno ma questo fa parte della visione dello dello spettacolo. Linda Watson non è il mezzosoprano previsto per l Herodias,  ma un soprano drammatico,  che a un certo punto della carriera si orienta verso ruoli meno impervi, mettendo da parte le  eroine wagneriane. Rispetto ad altre pur illustri interpreti, la Watson appare con uno strumento vocale di prim’ordine. Voce potente, sicurissima, notevole personalità scenica nel  rendere benissimo una signora dominante – psicologicamente e fisicamente – sul consorte, ferma nella propria posizione di successo, facendo anche palesare un barlume di umanità, al ricordo del primo marito.
Attilio Glaser è un Narraboth di bella effusione lirica mentre piuttosto appesantita è parsa la voce di Lioba Braun nei panni del paggio, anche penalizzato dalla regia. Impeccabile le numerose parti di fianco, essenziali per la riuscita del raffinato contrappunto formale straussiano, tra i tanti merita di essere segnalata la presenza di due dei più interessanti talenti emergenti della scena austro-tedesca come Thomas Tatzl (un nazareno) e Thomas Ebenstein (uno dei sei giudei) ma anche l’imponente vocalità di  Sorin Coliban (un soldato) presenza abituale sul palcoscenico della Wiener Staatsoper.
Resta la regia di Damiano Michieletto. Siamo in presenza di uno di quegli spettacoli destinati a dividere in modo drastico. Da una parte l’entusiasmo dei fautori del teatro di regia duro e puro, dall’altra quella parte di pubblico che fatica a cogliere il disegno complessivo dello spettacolo. Quella di Michieletto è una regia che incarna tutti gli stereotipi del genere, tutti i luoghi comuni ormai inevitabili del teatro alla moda 2.0: “solito” ambiente alto borghese, di gente annoiata e viziosa, le “solite” non scene – anche se il gioco cromatico e di luci  ha un suo valore estetico, i “soliti” costumi “per tutte le stagioni” e infine l’uso abbondante  di figuranti, utilizzati come “doppi” dei protagonisti e come figure di contorno.
Tra le varie forzature: la danza dei sette veli (coreografia Thomas Wilhelm ), privata di erotismo e ridotta più o meno alla solita scena di tentato stupro, quasi imprescindibile per certi registi. Infelice l’idea di trasformare il paggio in un’anziana signora, privando il ruolo di quell’ambiguità “mozartiana” – declinata in chiave omoerotica – che Strauss realizza magistralmente. Michieletto cade ancora una volta in uno sfoggio fine a se stesso, vagando  tra genealogie, simbolismi e richiami eruditi che nulla aggiungono, riducendosi a una  noiosa ridondanza barocca.
Gli va riconosciuta la capacità di lavorare sugli attori come pochi, quando si concentra sul dramma. Il finale non manca di una certa teatralità (a parte la citazione de “L’apparizione” di Moreau non particolarmente riuscita sul piano tecnico-estetico)– con Salome, sola in scena, con un l grande calice nel quale cola dall’alto il sangue del martire. Una scena intensa, libera da elementi distrattivi ( dominanti o la prima parte dello spettacolo). Qui, anche grazie alle capacità attoriali della Stikhina, tutto l’estetismo disturbante di questa moderna della “scena della follia” – o forse sarebbe meglio definirla un “duetto necrofilo” tra Salome e il morto – arriva diretto allo spettatore. (Foto Brescia & Amisano)