Gioachino Rossini (1792-1868): “Moïse et Pharaon” (1827)

Opera in quattro atti su libretto di Etienne de Jouy e Luigi Balocchi. Prima rappresentazione: Parigi, Théâtre de l’Académie Royale de Musique, 26 marzo 1827.
Primi interpreti: Nicholas-Prosper Levasseur (Moïse)
Henri-Bernard Dabadie (Pharaon)
Adolphe Nourrit (Aménophis)
Alexis Dupont (Eliezer)
Charles Bonel (Osiride)
Louise-Zulme Dabadie (Sinaïde)
Laura Cinti-Damoreau (Anaïs)
J.Mori (Marie)
Il Rossini parigino – che già aveva trasformato il Maometto II, opera napoletana (1820), in Le siège de Corinthe (1826) con notevoli adattamenti e brani nuovi scritti per l’occasione – travestì e ammodernò  nel 1827 il Mosè in Egitto, facendo tradurre il testo, con le aggiunte necessarie, Da Etienne de Jouy e Luigi Balocchi e ampliandolo da tre a quattro atti.  i due librettisti, però, data l’esigua portata del proprio compito non vollero  nemmeno che il proprio nome apparisse e sul frontespizio del libretto, alla prima esecuzione di questo Moïse et Pharaon, ou le passage de la mer Rouge, il 26 marzo 1827. Ora  “l’oratorio” napoletano s’era trasformato in un vero e proprio melodramma, anzi in un “Opéra”, ampliato non sempre funzionalmente ai fini dello scorrere drammatico della vicenda, e dotato anche di danza, obbligatorie per Parigi (…)
Anche se non è questa la sede per dar luogo ad un confronto minuto fra la versione napoletana e quella francese, non si può mancare di effettuare alcune generali osservazioni di confronto, sia, soprattutto, di far presente che a Parigi, pur se significative e d’un certo peso, le varianti apportate da Rossini non furono tali e tanto consistenti da far considerare il Moïse un’altra opera rispetto al Mosè: specie perché tutti i brani in un modo o nell’altro in evidenza (e, guarda caso, considerati dalla critica di ieri e di oggi i più rivoluzionari), già si trovano integri e compiuti nella partitura napoletana. (…)
Fra le numerosissime osservazioni di confronto fra le due opere, basti effettuarne una palese: si pensi che solo alla potenza  drammatica di un opera che si apre, “ex abrupto”,  con la grandiosi sissima scena delle tenebre e chiude il primo atto con il travolgente  finale primo: dinamicissimo, e tutto percorso da guizzi e, armonicamente accidentato ed in accorto “climax” ascensivo, quando l’apertura era estaticamente fissa nell’immobilità d’una tragedia senza catarsi. Un tocco di genio, dal punto di vista della strategia teatrale, che il Moïse, pur appropriatosi di ambedue le pagine, non possiede di certo. (…)
Con fine penetrazione, Bruno Cagli ha sintetizzato il problema dei rapporti fra Mosè e Moïse: “A Parigi Rossini presentava il Mosè come biglietto da visita presso l’ambiente ufficiale della grande metropoli e, in definitiva, presso tutta la cultura europea. Così la nuova versione è più uniforme e severa, adatta com’è ad essere apprezzata da tutti i cultori dell’epoca, cosa che puntualmente avvenne. Ma la versione francese e anche raggelata investito da un soffio di autorità che finisce per pesare. Quando invece aveva scritto il suo primo Mosè, Rossini, a ventisei anni, andava conducendo un suo discorso originale e libero sull’Opera Seria, e il Mosè in Egitto costituisce una tappa memorabile del cammino dell’opera dell’Ottocento (…)
Il Mosè portava con sé una sicura conoscenza delle esperienze teatrali europee più avanzate (…), e un intuito sui futuri sviluppi dell’Opera romantica che ha del prodigioso. Senza il Mosè, tanto per fare un esempio, il Nabucco di Verdi non sarebbe nemmeno pensabile. E non è tanto per qualche somiglianza esterna di ambientazioni e di personaggi, quanto per la concezione drammatica. Altre opere di Rossini, come Tancredi, Otello, Ermione, per non parlare de La donna del lago e Semiramide, la vincono sul Mosè per ricchezza di invenzione e, anche, almeno le ultime due, per equilibrio formale (diciamolo pure, dato che finalmente l’epoca in cui il “bel canto” era considerato sinonimo di vacuità è definitivamente tramontato), ma nessuna, prima del Tell, guarda così in avanti. E questo vale naturalmente per l’una e l’altra versione. La napoletana la vince per essenzialità drammatica: la seconda è più scaltrita, certo, è più aggiornata, ma in definitiva meno rivoluzionaria”.
(Estratto da “Mosè”, Guida dell’Opera, di Paolo Isotta, 1971)