Renato Cioni (1929 -2014): un ritratto

Renato Cioni (Portoferraio, Isola d’Elba, 15 aprile 1929 – 4 marzo 2014)
Roma,  dicembre 1968
Deve il successo alla statura di Joan Sutherland, l’altissimo soprano australiano che nei Puritani,
per appoggiare il capo sulle spalle di Arturo, è il più delle volte costretta a piegare goffamente le ginocchia: una scena brutta è insopportabile sia per lei, sia per Franco Zeffirelli, che nel 1960 dovevano mettere in scena l’opera alla Fenice di Venezia. Incuranti delle conseguenze, firmarono un telegramma in cui imponevano al direttore artistico della Fenice un tenore più alto di quello già scritturato. Fecero prima i nomi di Gianni Raimondi e di André Turp. Poi il regista si ricordò di un “colosso” incontrato a Bruxelles, alto quasi due metri. Era quello il partner su misura per la Sutherland: Renato Cioni, poco conosciuto ma alto al punto giusto.
Al soprano piacquero quelle nuove, atletiche spalle e, si intende, anche la voce. Per Cioni fu la fortuna. Passò in un baleno dalla notorietà provinciale alla fama internazionale. La Sutherland e il  marito, il direttore d’orchestra Richard Bonynge, favorirono da quel momento gli interessi del tenore con tanto zelo che il cantante si vide richiesto contemporaneamente a Napoli, a San Francisco, a Dallas e a New York.
Il duo Sutherland-Cioni  si rinsaldò l’anno successivo. Firmarono un contratto con la Decca per la incisione del Rigoletto e della Lucia di Lammermoor: lui, isolano dell’Elba, piuttosto chiuso e malinconico, chiamato provare l’opera nella villa che Soprano aveva appena acquistato a Ginevra, in Svizzera.
Ma li sembrò che il canto fosse un’affare secondario. Eppure mancavano pochi giorni alla data dell’incisione a Roma con l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia sotto la direzione di John Pritchard. In questa lussuosa dimora,  un’allegra compagnia di musicisti, poeti, pittori e scultori teneva  comunque alto il morale a Cioni: una giostra di gente che sistemava tendaggi e mobili, in un incredibile caos. La Sutherland lo incoraggiava e lo canzonava anche per la debole conoscenza dell’inglese. Esasperato, più di una volta il tenore si allontanò. Andava verso il lago a cantare i pesci, così come facevo da ragazzino a Portoferraio, Quando in famiglia si discuteva, mentre lui avevo una voglia matta di fare musica. Qualche settimana dopo a Roma, in quella torrida estate: stanco, sudato, arrossato in viso nel produrre cercati acuti e la Sutherland, invece, tranquilla, che senza alcun sforzo, scalza, sottolineava la difficoltà dei passaggi reggendosi incredibilmente su una gamba sola.
Una lezione un po’ stravagante per il giovane tenore nell’ora del suo definitivo inserimento nel mondo del disco e della lirica. Ho incontrato Cioni a Roma, di passaggio dall’isola d’Elba a Palermo, dove con La Straniera di Bellini inaugura la stagione del Massimo. “Non amo parlare dei miei impegni di lavoro “, confessa, “Semmai preferisco commentarli a cose avvenute. noi artisti siamo tutti un po’ superstiziosi Io non sono sempre stato anche prima di diventare cantante: all’Elba siamo tutti così, un po’ chiusi e restii nel  parlare delle nostre cose. Quando torno dai miei, che sono rimasti fedeli alle loro tradizioni, mi accorgo di non essere molto cambiato. Anche se giro il mondo, anche se conosco cose nuove, nuove abitudini, è difficile per un isolano dimenticare ciò che hanno inculcato nella nostra mente i nostri vecchi”.
Tra i “vecchi” include ovviamente i genitori, morti da qualche anno, pescatori che hanno fatto salti mortali per mandare avanti una famiglia di nove figli, cinque  maschi e quattro femmine, tutti  appassionati di musica e dotati di belle voci. Il tenore si ricorda i tempi dei primi guadagni per un’Ave  Maria di Schubert cantata ai matrimoni a  Portoferraio. Non mancava mai alle cerimonie: aveva la voce migliore dei Cioni e il padre se ne era reso conto permettendogli  raramente di seguirlo nella pesca. Se uscivano in mare, il tenorino si infagottava da capo a piedi per proteggere le preziose corde vocali.
Il richiamo del continente non tarda a farsi sentire. Già a undici anni Renato era arrivato clandestinamente a Piombino, acciuffato però e  rispedito immediatamente a casa dai carabinieri. Più tardi ebbe l’occasione di ascoltarlo Tito Petralia e Titta Ruffo, i quali lo incoraggiarono a iscriversi al Conservatorio di Firenze. Alla scuola del maestro Armando Fanelli il diciottenne Cioni fece enormi progressi. Avevo una grande fretta di esordire in teatro. Renato studiava ma non gli garbano le lezioni di pianoforte. Per molti mesi riuscì ad imbrogliare i professori suonando ad orecchio scale, arpeggi e sonatine. Qualche anno dopo, nel 1957, vincitore allo “Sperimentale” di Spoleto, fu richiesto dalla televisione per una Madama Butterfly accanto ad Anna Moffo. Gian Carlo Menotti e Thomas Schippers loscelsero nel 1959 per il Duca d’Alba al Festival dei Due Mondi, cui seguì l’incontro con la Sutherland e i voli impossibili da una città all’altra dell’Europa e dell’America per rispettare i  contratti, sempre in cast d’eccezione, con Maria Callas, Mirella Freni, Renata Tebaldi e sotto la direzione di grandi maestri virgole quale Karajan, Gavazzeni, Giulini, Sanzogno…. Ha convinto i pubblici più esigenti. Ricorda quello quello “terribile” di Parma. Cioni arrivò allora in teatro per una Bohème con con un cartellone sul quale aveva scritto a caratteri cubitali “Non sparate sul tenore”. I loggionisti  non solo non “spararono”,  bensì decretarono il successo di Renato che tornò a Parma acclamatissimo con la Luisa Miller, con la Parisina di Donizetti e nella Manon Lescaut di Puccini.

Dopo una Tosca al Covent Garden con Maria Callas nel 1963, Cioni aveva interpretato Cavaradossi, crivellato quindi alla fine del terzo atto dai proiettili, fu avvicinato dalla regina di Elisabetta, la quale gli esternò la proprio simpatia e gli domandò confidenzialmente di  che materia fossero le macchie di sangue sul suo petto. Le estenuanti tournée non impediscono a Cioni di essere un uomo felice. Confessa lui stesso di aver raggiunto quello che aveva sempre desiderato (non dimentichiamo per inciso che ha pur vissuto un duro anno alla Scala, dove per guadagnare si adattava a fare la comparsa). Ha oggi la gloria, il successo, due figli e una moglie che l’accompagna ovunque, lo aiuto in camerino perfino a indossare i costumi e che lo sposò – dice il cantante – dopo essersi convertita per lui dal jazz alla lirica. Avendo un formidabile orecchio musicale, quando il marito sta imparando una nuova aria, è lei,  anche se l’ha sentito una sola volta, a correggerlo e a ricordargli il motivo. “Mi segue meglio di un maestro”, ammette il tenore. (Estratto da “Una bella voce alta quasi due metri” di Luigi Fait, Roma, 1968)