Giuseppe Di Stefano (Motta Sant’Anastasia, 24 luglio 1921 – Santa Maria Hoè, 3 marzo 2008). A cento anni dalla nascita.
Nata per spaziare, libera e trionfante, per le marine associate e le miniere d’oro vegetale degli agrumeti di Sicilia, la voce di Giuseppe Di Stefano ha sofferto di essere imprigionata fra i righi del pentagramma e s’è azzittita prematuramente nella gabbia dorata del Teatro d’Opera. Questo, secondo noi, la diagnosi solo apparentemente fantasiosa del male che ha condotto al ritiro precoce dalle scene il tenore catanese.
L’analisi dei mezzi vocali originali di questo cantante mette al suo attivo la notevole estensione, la morbidezza vellutata dei centri e lo smalto tenero degli acuti, la sottile malia delle espressioni elegiache e il fascino conturbante di talune inflessioni voluttuose. Ma è lo studio del temperamento dell’artista che rivela i motivi della anticipata deterioramento di tanta grazia di Dio. Di Stefano, infatti, era per nascita e per vocazione un cantore popolare, istintivo, esuberante. Sentirlo cantare nei primi dischi registrati in Svizzera durante la guerra quindi a vent’anni, è una riprova di questa voglia impulsiva e incontrollabile di cantare liberamente, fuori da ogni costruzione formale. Quando nel 1946, a soli 25 anni, debuttò a Reggio Emilia in Manon, Di Stefano era ancora il Di Stefano schietto dei primi “Muttètti de lu pàliu” intonati ancora a gola spiegata fra le siepe carnose dei fichi d’India. Anche se educato, corretto, puntuale, il suo canto dava sempre la sensazione di una spontaneità sorgiva, di una splendida naturalezza; egli cantava guidato da un impulso che aveva dentro, quasi un bisogno fisico. E il suo canto sembrava un prodigio della natura e in realtà lo era, perché lo studio, in quei primi anni, governava solo secondo ferree leggi tecniche che una materia sonora che scaturiva però già perfetta da uno strumento di carne ed ossa superbamente dotato.
Nel giro di due soli anni (1947-1948) Di Stefano conquistò d’impeto la Scala e il Metropolitan e di li spiccò il volo per una parabola trionfale a sesto acuto, vale a dire breve ma intensa. Il dramma di Di Stefano fu però subito evidente agli studiosi della vocalità. Le virtù della spontaneità, della facilità connaturate nel suo canto si smarrivano non appena un testo musicale costringeva il cantante a seguire un itinerario diverso da quello istintivo. Al ritorno dagli Stati Uniti, in una Bohème per molti aspetti indimenticata, già si poterono cogliere nella voce di Di Stefano i primi segni della fatica che gli faceva seguire alle indicazioni del dettato musicale. Dava l’impressione di un usignolo costretto a cantare le Variazioni di Proch. Divenuto uno “strumento da suonare” secondo certe tecniche, e non più fonte diretta e sincera di suono, egli conservò per pochissimi anni inalterate le doti naturali: poi il colore rimase ma lo splendore si offuscò, le vocali spalancate alla ricerca di risonanze abnormi ruzzolarono indietro, il registro acuto troppo arditamente verticalizzato vacillò, le note centrali dilatate compromisero quelle acute un tempo cosa così alate e sicure, l’elasticità e la duttilità lasciarono il posto alla fissità e alla legnosità.
Abbiamo detto che Di Stefano era nato per essere soprattutto un cantore popolare. Il calore umano che emanava dalla sua persona, oltre che dal suo canto, e forse senza precedenti sulla scena lirica, popolata di divi di ogni calibro e presunzione. Quella sua aria di eterno ragazzo spensierato, contento, espansivo, generoso, felice di fare partecipi gli altri del suo dono divino, del suo privilegio, era davvero accattivante e contagiava tutti quanti lo avvicinavano. Sentirlo cantare esaltava, prima ancora che commuovere o entusiasmare. Il tratto ricco di umanità, che aveva per tutti, di una disarmante semplicità e spontaneità era lo stesso che si manifestava nel suo canto. Suscitava simpatia il vederlo, ascoltarlo mentre si infervorava nel discorso. Sentirlo cantare era qualcosa di più, perché la voce, nel canto, si accendeva di un fascino irresistibile, fatto di naturale bellezza e dolcezza. Forse è proprio qui il segreto del suo successo umano ancor prima che artistico: nell’assenza di ogni artificio vocalistico, d’ogni disumana facoltà formale., nello snobbare spavaldamente i precetti del Belcanto e nello sfidare temerariamente la stessa sua natura per assecondare l’estro interpretativo del momento, l’influenza del temperamento è quella che, riferendoci alla Callas e a Di Stefano, abbiamo definito l’inclinazione ai personaggi proibiti. D’Artagnan della scena lirica per istinto e non per scelta. Di Stefano infatti abbandonò ben presto i personaggi e lui congeniali che gli avevano dato la gloria e, con loro, le espressioni soffuse di grazia, tenere, dolci per le quali era nato e si proiettò nell’avventura di personaggi contrari alla sua indole vocale ma suoi per carattere, prendendoli con un canto scoperto, nudo, imprudente. I danni evidenti che gliene derivarono non lo dissuasero e continuò imperterrito ad andare avanti: da Nadir passò da Arturo, ad Alfredo, ad Josè, a Don Alvaro, Turiddu, a Canio, a Johnson di Sacramento, a Manrico, a Calaf, a Radames, ecc. (Fine prima parte – Estratto da “Giuseppe Di Stefano: cantore popolare per vocazione” di Guido Tartoni, 1972)