Parma, Arena Shakespeare, TeatroDue: “Silence, on Tourne!

Parma, Arena Shakespeare, TeatroDue 
“SILENCE, ON TOURNE!”
Pockemon Crew  

Coreografia Riyad Fghani
Creazione musicale Alexis Roure «Psykot»
Luci Rudy Muet
Costumi Nadine Chabannier
Interpreti:  Karim Felouki, Lebigre Etienne, Kevin Hsissou, Karim Beddaoudia, Lebigre Jules, Hyacinthe Valérie, Kevin Berriche, Lebigre Antoine
Produzione Association Qui fait ça? Kiffer ça!
Co-produzione Cie Pockemon Crew, Théâtre de Suresnes Jean Vilar con il sostegno di Région Rhone-Alpes, Opéra National de Lyon, Centre Chorégraphique de Bron/Pôle Pok, Maison des Essarts,
Parma, 7 luglio 2021
Silence, on tourne! è una creazione che risale al 2012 dove, a giudicare dai video postati sul web dalla stessa compagnia, era decisamente strutturata sotto forma di “battle”, quindi molto più coreografica e performante della versione vista all’arena Shakespeare (TeatroDue) di Parma. Peccato quindi constatare che i programmi di sala che si trovano riassunti nei siti dei diversi teatri italiani dove la Pockemon Crew si è esibita, non facciano che copiaincollare le stesse identiche informazioni che non hanno nulla a che vedere con la reale coreografia messa in scena, né allora, né adesso, quando la si vuole definire “omaggio al cinema musicale” (leggi Musical). Atteniamoci dunque, come nostro dovere professionale, a recensire ciò che realmente abbiamo avuto il piacere di vedere, ne più, né meno. La scena è piuttosto sobria: uno schermo bianco, un baule (pieno di pellicola di celluloide) e un proiettore che diventano poi strumenti ora di contesa, ora di intima comunione: il danzatore e lo schermo, come l’io e lo specchio: ciò che siamo e come vorremmo apparire, ovvero la manifestazione di ciò che abbiamo realmente dentro di noi. In questo luogo che sembra essere il palcoscenico in penombra rimasto vuoto dopo uno spettacolo, entrano in scena i danzatori che interagiscono con sguardi e gesti rimanendo in silenzio. Tutto è come muto per aver assorbito persino l’eco del clamore e degli applausi del pubblico ormai andato. Ai danzatori non resta che continuare a sognare la ribalta, tanto da riviverla, poiché partono le prime note di “Unsquare Dance” di Dave Brubeck Quartet tratto dal film “Green Book”, il famoso brano caratterizzato dal battito di mani e pianoforte; un inno al movimento. Finalmente si cominciano a vedere le coreografie di gruppo, alternarsi alle improvvisazioni del singolo, ognuno con un’evidente personalità, altrettanto capace di virtuosismi del corpo quando per terra si contorce girando varie volte sulla propria testa. Pantaloni neri, camicia bianca e bretelle, gli otto breakers della crew invadono letteralmente la scena sulla “Sing, sing, sing” della Starsound orchestra, canzone portante del genere teatro-danza, ed il pubblico, distanziato sui gradoni dell’arena, incomincia a scandire il ritmo con le mani per la voglia di dare una spinta decisiva allo spettacolo che però, a nostro avviso, un po’ viene rallentato dalle ormai già fin troppo viste pantomime stile film muto sul rapporto stereotipato capo-lavoratore, impresario-artista, che sinceramente abbassano il livello professionale ma anche quello del gradimento personale. Si continua suoi suoni pacati di “Remembrance” del gruppo dei Balmorhea che accompagna le belle “figure cinesi” di un giovanissimo breaker, sullo schermo bianco. Infine, quando i danzatori letteralmente balzano sul proscenio ad abbracciare idealmente gli spettatori, c’è “Stunned” dei Der Reinhalter, neanch’essa una musica da film, quanto una trance groove che magari è frequente trovarla negli iPod dei ballerini. Allora, di certo questa coreografia non è per niente un omaggio al cinema musicale ma un voler ambientare l’hip hop in un set del cinema d’altri tempi. Non riconosciamo soundtrack di musical famosi (“West side story”, “A Chorus Line”), il cui richiamo avrebbe semmai dovuto essere diretto e semplice com’è nello spirito della danza da strada da cui l’hip hop deriva. Forse un accenno a “Flashdance” (film anni Ottanta) sarebbe stata una miglior cosa, per il richiamo diretto con la breakdance.
Sebbene l’art director Riyad Fghani sia uscito per prendere gli applausi finali, i giovani danzatori non sono certo i suoi amici capostipiti della compagnia, fondata nel 1999, ora più che quarantenni, ma nuove leve formate dalla compagnia che a Lione ha un centro di formazione (Les Smockemons). Infatti, tutto il merito della riuscita dello spettacolo sta nella gran voglia di fare e di dare dei favolosi otto giovani: così affiatati e con palese voglia di performare al meglio, senza primeggiare l’uno sull’altro, sempre divertenti e ironici. Ciò che si nota è questo, mentre ciò che non si vede è la tecnica proprio perché sapientemente acquisita a formare professionisti di alto livello. È un privilegio poter ammirare l’ hip hop puro, così come voluto da Fghani, perché molto rare le compagnie che sono votate esclusivamente a questo tipo di danza del corpo (un’altra è la Compagnie Käfig di Mourad Merzouki). Insomma tanta generosità nelle capriole scavezzacollo, nelle contorsioni oltre il limite della conformazione ossea, mescolando tecnica a sentimentalismi, come abbiamo detto, un po’ fuori posto, che si concretizzano in scene mute che vorrebbero richiamare tale cinema in bianco e nero, ma non sono né ben sceneggiate, né illuminate. Ma questo glielo perdoniamo. La danza della Pockemon Crew attrae e diverte, ci guarda dal basso in su e più che “Ciak si gira”, si striscia, si piroetta e si rotola, mixando il movimento del tip tap col circense in stile Recirquel e si fa parkour con leva sui corpi, finendo per trottolare sulla testa. Foto di Charlotte Tertrais