57° Macerata Opera Festival 2021: “Aida”

Macerata, Arena Sferisterio, Macerata Opera Festival 2021 – 57a edizione
AIDA
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni, da un soggetto di Auguste Mariette.
Musica di Giuseppe Verdi
Il Re FABRIZIO BEGGI
Amneris VERONICA SIMEONI
Aida MARIA TERESA LEVA
Radamès LUCIANO GANCI
Ramfis ALESSIO CACCIAMANI
Amonasro MARCO CARIA
Un messaggero FRANCESCO FORTES
La gran sacerdotessa MARITINA TAMPAKOPOULOS
Orchestra Filarmonica Marchigiana
Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini”
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del Coro Martino Faggiani
Regia Valentina Carrasco
Scene Carles Berga
Costumi Silvia Aymonino
Luci Peter van Praet
Coreografie Massimiliano Volpini
Nuovo allestimento dell’Associazione Arena Sferisterio
Macerata, 13 agosto 2021
Una delle sfide operistiche degli ultimi anni è senza dubbio quella di fare un’“Aida” senza Egitto. In un certo senso questo guanto è stato raccolto anche da Valentina Carrasco, che ambienta la sua in un Egitto occidentalizzato fin-de-siècle. Decide infatti di portare in primo piano non sfingi e piramidi, palme e scarabei, come ci immagineremmo, ma imperialisti e colonizzati, incarnati i primi nel protettorato inglese d’Egitto, che si serviva di un governo collaborazionista autoctono, e i secondi nelle popolazioni di razza camitica del Sud (ma senza blackface), storicamente sempre sottomessi al cosiddetto Egitto bianco. Così il grande dono che si riporta durante la celebre Marcia Trionfale non  sono ricchezze, danzatrici discinte e compagnia, ma è un oleodotto. Così i sacerdoti non sono i folkloristici adepti di Ftha, ma degli ayatollah di nero ammantati, naturalmente capitanati da Ramfis. Così al posto dei danzatori troviamo degli africani affamati, malmenati, uccisi. È una scelta molto forte (chiaramente portata avanti anche grazie al talento immaginifico dello scenografo Carles Berga), e c’è chi contesta e lancia improperi, eppure è una scelta che funziona, che esteticamente si rifà a pellicole come “Il tè nel deserto” di Bertolucci e “Passaggio in India” di Lean – chiarissimamente citato nel picnic fra le dune che sostituisce la scena in camera di Amneris del secondo atto. Certo, il musicologo blasé potrebbe ribattere che Verdi avesse apertamente e sapientemente schivato ogni implicazione politica nel comporre l’opera, e non avebbe torto. Ma andrebbero allora anche prese in considerazione le ragioni di questo schermarsi: de facto l’opera venne commissionata dagli azionisti francesi del Canale di Suez e dal governo del kevidé, cioè il vicerè filo-occidentale, e per quanto al repubblicano e democratico Verdi fosse spiaciuto il parterre di politici, funzionari e teste semicoronate presenti alla prima del Cairo, quelli in realtà hanno posto la prima pietra per l’ecumenica celebrità dell’“Aida” (oltro che aver corrisposto l’astronomica somma di 150000 franchi al compositore bussetano). Per questo, azzardo, credo che a Verdi non sarebbe dispiaciuto, oggi, vedere questa messa in scena che porta in primo piano la lotta di classe, i soprusi degli occidentali. Certo, non tutto è riuscito: la prima scena del primo atto, ad esempio, è di molto pretenziosa, con Amneris e Radamès che giocano a golf durante il terzetto e Aida, francamente impacciata in un abito che sembra uscito da “Il colore viola” o dal guardaroba di Mamie di “Via col vento”, che si affanna come raccattapalle. Tanto l’immagine di Amneris è fascinosa (pantaloni a palazzo, colbacchi piumati, spolverini scivolati di seta, sui toni del cipria, del seppia ,del tortora), quanto quella di Aida è grottesca, col suo grembiule à rouches e i capelli afro, ma anche con gesti troppo caricati e goffi, che paiono rubati a una big mama che pratichi voodoo a New Orleans, più che a una principessa etiope (unico neo nella altrimenti bella resa estetica dei costumi di Silvia Aymonino). Per fortuna, questa prima scena discutibile lascia poi spazio alla splendida coreografia al tempio di Ftha, con i danzatori interamente avvolti in tessuti che da fagotti a terra lentamente diventano splendide creature aeree (un plauso a Massimiliano Volpini per la coreografia), circondate dalle fiaccole che il collegio sacerdotale reca, suggellate dalla bella voce pulita ed evocativa di Maritina Tampakopoulos nei panni della Sacerdotessa e dalle luci di Peter van Praet, splendidamente architettate. Il secondo atto prevede il già citato picnic nel deserto e la costruzione dell’oleodotto, con le rivolte degli africani, sulla Marcia Trionfale. Dopo questa mastodontica costruzione, non abbiamo più grossi cambiamenti: nel terzo atto arrivano le lampadine a illuminare la struttura, e nel quarto la stessa viene tutta transennata, diventando il luogo di prigionia e di morte di Radamès. Anche in questo caso, forse, si sarebbe potuto fare di più, magari inserendo un altro intervallo, perché l’ultima scena perde d’intensità, tra le tubature e le reti delle transenne. In ogni caso, tutte le dinamiche interne al libretto sono rispettate, e occorre constatare che già questo, considerata la scelta tanto vincolante dell’ambientazione, è considerabile un successo: c’è il trionfo, c’è l’onore patrio, c’è l’amore, la lacerazione tra padre e marito, c’è la sconfitta. E senz’altro questo risultato si raggiunge anche grazie all’attentissima, quasi millimetrica, direzione di Francesco Lanzillotta, che né si abbandona al larmoyant, né cade nelle trappole del  “bandismo verdiano”, ma rende con gesto ampio ed energico una drammaturgia musicale ricca quanto implacabile, non consentendo quasi mai alla scena di prendere il sopravvento sulla buca, né viceversa. La compagine di palco è delle più quotate, e per lo più non delude le aspettative. Maria Teresa Leva sta diventando ormai un’Aida di riferimento, e, a parte certe movenze poco principesche di cui sopra, riconferma la sua grande sintonia con il ruolo, che canta sempre con trasporto e cura nel fraseggio, linea di canto omogenea e apprezzabili abbandoni lirici; senza dubbio il suo momento migliore è “Cieli azzuri”, ma anche i duetti del terzo atto sono gestiti con grande maestria. Luciano Ganci nel ruolo di Radamès si riscalda in corso d’opera (“Celeste Aida” è senz’altro prudente e poco attento nei colori e nelle mezzevoci), ma già dal secondo atto migliora nell’emissione, nella proiezione e cura del fraseggio. Veronica Simeoni (Amneris) è la più applaudita della serata, e non è difficile capirne le ragioni: il totale dominio vocale e la straordinaria naturalezza, sia scenica che vocale, la rendono l’interprete più credibile sulla scena. Inoltre la regia carica di fascino rétro il personaggio, che trova nella spontanea eleganza fisica della Simeoni un’ottima alleata. Piacevole sorpresa della serata è stato l’Amonasro di Marco Caria, bella tenuta vocale, un porgere nobile e una dizione schietta e sonora. Belle prove anche quelle di Luciano Beggi, un Re giustamente solenne e ben proiettato fin nella zona grave, e Alessio Cacciamani nei panni di Ramfis, anch’esso ben sostenuto da una tecnica solida. Degno di nota pure il messaggero di Francesco Fortes, la cui vocalità limpida e la chiara dizione ben contrastano con i suoni tondi e scuri dei suoi colleghi. Magnifica, coesa e ricca di passione anche la resa del Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini”, che si presta con successo anche alle trovate sceniche. Nonostante alcune perplessità, ci si augura che questa produzione rimanga nel repertorio maceratese e che si possa ammirarla anche in futuro, con tutto il carico di questioni che porta con sé, ma che non si possono certo considerare peregrine o posticce.