Lajos Kozma (1938-2007): “Imparò da Tito Schipa a cantare in italiano

Lajos Kozma ( 2 settembre 1938, Lepsény, Ungheria – 30 dicembre 2007, Umbertide, Perugia)
Lajos Kozma non ha avuto vita facile. Nasce a Lepsény, vicino a Budapest, il 2 settembre 1938.
Il padre ha una sartoria bene avviata. Quando Lajos rimane orfano, giovanissimo, si trova improvvisamente sulle spalle una famiglia intera. I fatti d’Ungheria del 1956 devono averlo toccato da vicino; ma alla politica con lui non si può accennare, nemmeno con circospezione. Nel 1963 incontra Edda, una campionessa di pattinaggio, che, da buona ungherese ama la musica e studia canto al Conservatorio. Nel 1964 Kozma vince una borsa di studio che gli consente di venire a Roma. Per restare in Italia, Kozma fa i salti mortali: “Ho accettato parti di canto quasi impossibili. Ora che ho ingranato è tutto più semplice”. Aver ingranato per Lajos Kozma significa cantare nei maggiori teatri internazionali e con i maggiori direttori d’orchestra. Nonostante questa celebrità, Kozma dice che gli tocca lavorare molto per potere mandare i soldi a casa, alla madre rimasta in Ungheria. Racconta che, quando era piccolo si innamorò della musica e del canto. Il padre ascoltava i dischi di Caruso e Gigli. “O sole mio lo faceva impazzire” quando aveva sì e no tre anni. Un giorno, che aveva imparato a leggere, gli capita tra le mani un racconto di cui è protagonista un ragazzo che suona il violino. Decide che vorrà suonare il violino. Un’impennata all’ungherese; ma intanto quel violino glielo comprano e il primo passo verso la musica è compiuto. Poi esplode l’amore fatale. A dodici anni Lajos Kozma incomincia a scoprire la sua voce. Canta operette di Léhar, Kalman, Strauss. A sedici anni entra all’Accademia Liszt di Budapest. Al primo saggio canta una parte buffa, Papageno del Flauto Magico di Mozart. Una parte da baritono. “Quando iniziai a cantare non sapevo assolutamente d’essere tenore. Ma un bel giorno, col mio maestro Andreas Leopold, scoprimmo che non ero baritono, pur con quelle note gravi che emettevo senza sforzo.” A questo punto va detto che Kozma ha una fortuna singolare: quando è giù di voce, invece di venirgli una raucedine, diventa baritono. Giusto il giorno del primo esame d’ammissione non è in forma e così canta con un’aria da baritono. Ci vuole un anno e mezzo perchè il suo insegnante facesse uscire la sua vera natura vocale. In via del tutto eccezionale per l’Accademia Liszt, Kozma riesce ad ottenere il permesso di seguire i corsi di canto in teatro. Il vantaggio per Kozma è duplice. Può beneficiare di quattro lezioni di perfezionamento per settimana, due in Accademia e due in teatro.
I corsi sono tenuti dal grande Tito Schipa: “Era anziano quando l’incontrai”, racconta Kozma, “aveva più di settant’anni e s’annoiava a morte a sentire i miei compagni che cantavano in ungherese Verdi, Puccini, ecc. Certe volte si addormentava perfino. Io invece mi sforzai d’imparare l’italiano foneticamente. Cantavo senza capire le parole, ma cantavo nella sua lingua. Schipa allora si mise a correggere amorevolmente la mia pronuncia, m’insegnò anche certi particolari emissioni vocali. Oggi parlo malissimo l’italiano, ma lo canto senza errori. Anche nelle parti come Orfeo di Monteverdi, nessuno s’accorge che sono straniero.” Kozma ha un repertorio molto vasto: fa teatro, concerti, musica da camera. Studia con un metodo tutto suo, segnando prima minuziosamente con una matita colorata gli accenti, il fraseggio, la dinamica, le armonie di sostegno del periodo musicale, la forma delle arie.
“Prima”, dice, “lavoravo più con la voce ora più con il cervello. Studiando molto un autore, si scoprono analogie straordinarie tra i vari pezzi e allora la matassa si sbroglia facilmente”. La stanza ora è diventata troppo piccola per Lajos Kozma. “Andiamo fuori”, propone, “a prendere un aperitivo. Non ce la faccio proprio più.” Finisce la frase ed è già sulla porta. Al caffè, il cantante si rasserena e appare come un giovanotto a cui va tutto per il meglio. “Noi siamo spesso malinconici: certe volte”, racconta la moglie Edda, “le cose vanno bene, magari siamo in teatro e Lajos ha un grande successo. Improvvisamente tutti e due nello stesso momento, senza dircelo, diventiamo tristissimi e non sappiamo perché”. E mentre Edda dice così, di colpo si fanno entrambi malinconici, come nelle danze della loro terra cambia improvvisamente il ritmo. Con occhi nerissimi e incupiti, non si fa fatica a immaginare Lajos Kozma come un Orfeo che sta scendendo agli inferi. (“Lajos Kozma. Imparò da Tito Schipa a cantare in italiano”, di Laura Padellaro, Roma 1970)