Novara, Teatro C. Coccia: “Dopo l’ultima stanza: preludio a Barbablù” – “A kékszakállú herceg vára”

Novara, Teatro C. Coccia, stagione autunno/inverno 2021
“DOPO L’ULTIMA STANZA PRELUDIO A BARBABLÙ”
Musica di Claudio Scannavini
Judith GIUDITTA PASCUCCI
Arianna CAROLINA RAPILLO
“A KÉKSZAKÁKALLÚ HERCEG VÁRA”
Opera in un atto su libretto di Béla Balázs liberamente tratto da Charles Perrault
Musica di Béla Bartók, Orchestrazione per organico ridotto di Paola Magnanini e Salvatore Passantino
B
arbablù ANDREA MASTRONI
Judith MARY ELIZABETH WILLIAMS
Orchestra del Teatro Coccia di Novara
Direttore Marco Alibrando
Regia Deda Cristina Colonna
Scene e costumi Matteo Capobianco
Coproduzione Fondazione Teatro Coccia e Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi
Novara,  24 ottobre 2021
Il teatro Coccia già durante i lunghi mesi di chiusura ha mostrato un coraggio e una volontà di sperimentazione non comuni proponendo insoliti spettacoli appositamente pensati per la fruizione on line. Il ritorno dell’opera avviene anch’esso nel segno di un titolo per nulla scontato e di non poco impegno per una realtà come quella novarese. “Il castello del Duca Barbablù” (per questioni di praticità indicheremo il titolo nella versione italiana anche se l’opera è stata eseguita nell’originale ungherese) richiede, infatti, uno sforzo sul versante esecutivo non indifferente nonostante la brevità dell’opera e il numero limitato di personaggi. Il teatro novarese non ha la dimensione teatrale (intesa come buca) ne dispone di un’orchestra di dimensioni compatibili con quanto prevede la partitura – almeno novanta elementi – si è quindi proceduto a un lavoro di riorchestrazione ad opera di due giovani musicisti dell’Accademia AMO Paola Magnanini (già apprezzata per l’orchestrazione della “Cendrillon” di Pauline Viardot) – e Salvatore Passantino sotto la guida di Marco Taralli. Ne è uscita una versione per ventitré strumenti, funzionale e godibile. Si è colto con chiarezza lo studio attento, fedele e meticoloso sulla scrittura e sullo stile di Bartok. Nell’impossibilità di sfruttare gli spessori sonori della partitura originale si è lavorato molto sulla timbrica dei singoli strumenti chiamati a caratterizzare le varie situazioni. L’ottima acustica del teatro novarese garantisce inoltre una notevole presenza di suono – anche in presenza di questo organico – che mantiene il senso d’imponenza della partitura originale.
L’esecuzione dell’opera è stata preceduta da un breve prologo strumentale di Claudio Scannavini di buona aderenza stilistica ed espressiva con l’opera di Bartok cui si legava direttamente l’introduzione in prosa,  in traduzione italiana, recitata da Giuditta Pascucci e Caterina Rapillo qui viste non come semplici narratrici, ma come due delle mogli di Barbablù impegnate a riflettere su quanto loro hanno già vissuto e che ora vedrà il pubblico.Marco Alibrando dirige con grande sensibilità mostrandosi in perfetta sintonia con questa  versione. Una direzione curata e attenta ai dettagli che esalta proprio quelli elementi timbrici di taglio cameristico che caratterizzano la revisione. Si  apprezza inoltre l’attenzione alle esigenze del canto. Gli strumentisti dell’’orchestra novarese confermano il costante progresso qualitativo già evidente nelle scorse stagioni, mostrandosi capaci di affrontare con professionalità qualunque repertorio. Eccellenti i due solisti di canto.  Andrea Mastroni affronta Barbablù con una bella voce da autentico basso, naturalmente ricca di armonici e omogenea  su tutta la gamma con acuti sicuri e gravi ricci di suono. La cura dell’emissione si apprezzano soprattutto nelle frasi più dolenti del ruolo – in perfetta linea con le scelte direttoriali e registiche – ma quando la partitura lo richiede la voce sa espandersi con nobile grandiosità. Si ascolti l’imperiosità della scena del terrazzo, quando il Duca esalta la grandezza dei suoi possedimenti,  la voce di Mastroni  sembra ampliarsi con il  “crescendo” orchestrale. Nelle ultime due porte il suo canto si caratterizza di una forte carica emotiva e di sincera umanità.
Mary Elizabeth Williams è in qualche modo costretta a patteggiare con l’improba scrittura di Judith che la costringe a volte a forzare in acuto o a ingrossare in modo un poco artificioso dei gravi. Si tratta di un disagio compensato da una voce timbricamente godibile, ricca e potente, di grande presenza e da un temperamento drammatico di primordine.
La regia di Deda Cristina Colonna con scene e costumi di Matteo Capobianco opta per un simbolismo elegantemente astratto. I costumi tra il fantasy e la fantascienza evitano qualunque eccesso di realismo e mantengono lo stacco netto che deve esserci tra la vicenda rappresentata e il pubblico. In scena una torre stilizzata con le porte che si aprono lungo le pareti e al centro della stanza giganteggia un trono. L’apertura delle diverse porte è accompagnata dalla discesa di elementi evocativi – catene, monete, lance – che con riflessi di luce si colorano di rosso quando Judith evoca la presenza del sangue. Elementi che diventano più evidenti nelle ultime porte dove pur rimanendo lo stile coerente gli elementi divengono più espliciti: quinte vegetali per i giardini, i volti stilizzati – simili a certe illustrazioni liberty – per le precedenti mogli di Barbablù. Di grande impatto la scena del terrazzo quando l’esplosione della luce descritta nel libretto è realizzata illuminando progressivamente l’intera sala del teatro in tutte le sue parti per poi far ripiombare le tenebre con le due porte seguenti.
La regia gioca molto sul rapporto tra i personaggi. All’inizio i due agiscono ravvicinati ma la distanza cresce progressivamente man mano che aumentano l’ossessione di Judith per le porte e la disillusione di Barbablù trasmettendo un senso di crescente incomunicabilità. Molti elementi richiamano a questa dimensione profondamente umana, lo stesso tema del sangue è declinato in tal senso come metafora del dolore profondo del protagonista che appare sofferente, come torturato, a ogni apertura di porta.
Un’apertura intensa e di notevole interesse cui purtroppo il pubblico non ha risposto come lo spettacolo avrebbe meritato. Gli ampi spazi vuoti in sala sono stati la sola nota stonata di questa produzione.