Venezia, Teatro La Fenice: Jonathan Brett e Maxim Vengerov in concerto

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione 2020-2021
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Jonathan Brett
Violino Maxim Vengerov
Felix Mendelssohn Bartholdy:  “Le Ebridi”: ouverture da concerto in si minore op. 26; Johannes Brahms:  Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 77; Felix Mendelssohn Bartholdy: Sinfonia n. 3 in la minore op. 56 “Scozzese”.
Venezia, 31 ottobre 2021
Prosegue con successo la stagione sinfonica del Teatro La Fenice, che da qualche tempo si è focalizzata sulla produzione romantica nell’area austro-tedesca, con particolare riguardo a Johannes Brahms, presente, accanto ad altri autori, nei programmi degli ultimi tre concerti. Questa volta il sommo musicista di Amburgo era affiancato da un altro gigante della musica, come lui nato nella medesima città anseatica e analogamente ritenuto – forse, anche nel suo caso, con qualche semplificazione – un “classico tra i romantici”: Felix Mendelssohn Bartholdy. Dunque, opere appartenenti a due diverse fasi della stagione romantica tedesca erano messe a confronto: da un lato, Le Ebridi: ouverture da concerto in si minore op. 26  e la Sinfonia n. 3 in la minore op. 56 “Scozzese” di Mendelssohn – appartenenti al primo romanticismo e ondeggianti tra un classicismo derivato da Goethe e suggestioni ossianiche –; dall’altro il Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 77  del tardo romantico Brahms, in cui l’orchestra – diversamente dagli omologhi concerti di Mendelssohn, Bruch e Scumann, in cui il violino domina su di essa – si confronta alla pari con lo strumento solista; il che conferisce alla partitura un particolare spessore sinfonico. Ad eseguire tali composizioni era chiamato il direttore Jonathan Brett insieme al violinista Maxim Vengerov.
È stata per noi una sorpresa davvero gradita conoscere questo direttore: la lettura da lui proposta dei brani in programma rivelava, infatti, la spiccata personalità di un interprete, che ha il coraggio di  imprimere alle sue esecuzioni una cifra interpretativa assolutamente inconfondibile ed originale, di far trasparire da esse una concezione estetica autorevole e coerente. Così nelle Ebridi – complice un’orchestra sensibile e partecipe – l’adamantina purezza del suono, le contrapposizioni dinamiche, la magistrale concertazione hanno pienamente rivelato il carattere composito di questa straordinaria ouverture da concerto – che Wagner, generalmente tutt’altro che benevolo verso il compositore, non poté fare a meno di ammirare –, nella quale la classica impostazione della forma-sonata si coniuga ad un uso “impressionistico” delle sequenze accordali, che perdono la loro funzione armonico-strutturale, per evocare, ad esempio, il salire e lo scendere delle maree, in base ad una tecnica compositiva, per l’epoca, avveniristica, che trova ulteriore conferma se si considera che l’intera composizione deriva dal tema iniziale, un semplice inciso poi riproposto anche per moto contrario.
Analogamente nella Sinfonia “Scozzese” il direttore, sempre perfettamente assecondato da un’orchestra encomiabile, ha mirabilmente espresso – con oculata scelta di tempi (dove occorreva suggestivamente dilatati) e particolare attenzione ai colori orchestrali – i diversi climi psicologici e paesaggistici così come le peculiarità formali, ravvisabili nei quattro movimenti, in cui si articola questa prodigiosa partitura. Nella prima sezione del primo movimento, Andante con moto, una sorta di solenne corale, si sono segnalati oboi, clarinetti, fagotti e corni, cui subito si sono uniti validamente viole, violoncelli e bassi (i violini, si sono sentiti solo più oltre in una sorta di delicata “invocazione”). Nella seconda sezione, Allegro un poco agitato, si sono validamente imposti, con la consueta coesione, gli archi nel primo tema, dal piglio quasi eroico, subito ripreso dai fiati e sviluppato dall’intera orchestra, mentre i violini hanno esposto con intensità il secondo tema, quasi una preghiera sommessa. Ancora gli archi si sono messi in luce nella Coda conclusiva, laddove sembra quasi evocare una tempesta di mare; più oltre i fiati hanno suggestivamente intonato il corale dell’Andante iniziale, che di fatto conclude il primo tempo. Nel successivo Vivace non troppo, dall’ispirazione popolare e il taglio classico, si è fatto apprezzare per la sua verve il clarinetto nel delizioso motivo pentatonico – omaggio di Mendelssohn alla musica folklorica scozzese – esposto su un tremolo di violini e viole, e poi affidato a flauti e oboi, e poi ancora all’intera orchestra; successivamente si sono imposti gli archi in un secondo tema, delicato e saltellante, intonato sottovoce. Nell’Adagio, una delle più belle pagine di Mendelssohn, dal tono struggente (diffusamente proposta dal direttore con la citata dilatazione agogica), si sono fatti apprezzare i violini – nella lunga, nostalgica melodia, che costituisce il primo tema – e, successivamente, i legni insieme ai corni e, infine, tutta l’orchestra nel secondo tema dal ritmo quasi di marcia funebre. Il conclusivo Allegro vivacissimo ha rivelato una travolgente energia ritmica ed un’estrema forza espressiva, con i suoi due temi principali (guizzante il primo in la minore, esposto dagli archi; scattante ed energico il secondo in mi minore, presentato da oboi e clarinetti), sottoposti a intensa elaborazione contrappuntistica; particolarmente solenne è risultato l’inno, che chiude nobilmente la sinfonia.
Nel concerto di Brahms la prestazione offerta da Maxim Vengerov è stata senza alcun dubbio brillante, grazie anche agli interventi precisi, affiatati, partecipi di tutta l’orchestra, sotto la guida sicura del direttore. Il solista, naturalizzato israeliano, di origine russa, è riuscito a confrontarsi mirabilmente con il respiro sinfonico di questa partitura – che, all’epoca, i detrattori di Brahms giudicavano né più né meno che un ostacolo per il violino, data la sua densa scrittura orchestrale – riuscendo ad interpretare da suo pari le intenzioni dell’autore, che ha inteso instaurare un rapporto complementare tra il carattere monumentale di certi passaggi orchestrali e il tono di riflessione interiore, che percorre la parte solistica, come si è potuto constatare nel primo movimento, tra l’altro concluso con straordinaria padronanza tecnica, affrontando la lunga cadenza finale. Il violinista, poi, ha fatto “cantare”, con dolce espressività, il suo strumento nell’Adagio – aperto da un intervento dei soli fiati – percorrendo una linea melodica, che ha la semplicità d’impianto di un Vivaldi, mentre nella parte centrale di questa pagina idilliaca si è efficacemente cimentato nello stile “parlante”, da cui è caratterizzata, a riprodurre nella fermezza della scrittura la libertà del “rubato” alla Chopin. Travolgente è risultato il Finale dal vigore rusticano, in cui si colgono quei modi “ungheresi” cari a tutta la classicità viennese come allo stesso Brahms. Travolto dagli applausi e dalle acclamazioni, il concertista ha concesso un fuoriprogramma bachiano: l’Adagio dalla Sonata n. 1 per violino solo BWV 1001. Analoghi applausi ed acclamazioni sono risuonati anche dopo l’esecuzione degli altri due pezzi. Dunque, successo calorosissimo.