Genova, Teatro Carlo Felice: “Bianca e Fernando”

Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione d’Opera 2021-2022
BIANCA E FERNANDO(Versione Genova 1828)
Melodramma in due atti su libretto di Domenico Gilardoni, rivisto da Felice Romani, tratto da “Bianca e Fernando alla tomba di Carlo IV, duca d’Agrigento” di Carlo Roti.
Musica di Vincenzo Bellini
Bianca SALOME JICIA
Fernando GIORGIO MISSERI
Carlo ALESSIO CACCIAMANI
Filippo NICOLA ULIVIERI
Clemente GIOVANNI BATTISTA PARODI
Viscardo ELENA BELFIORE
Uggero ANTONIO MANNARINO
Eloisa CARLOTTA VICHI
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice
Direttore Donato Renzetti
Maestro del Coro Francesco Aliberti
Regia, scene e costumi Hugo de Ana
Luci Valerio Alfieri
Prima esecuzione in tempi moderni
Nuovo Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice
Genova, 28 novembre 2021
Azzardata ma certo non peregrina è stata la scelta del teatro Carlo Felice di Genova di portare in scena una vera opera rara del belcanto italiano, e cioè quel “Bianca e Fernando” di Bellini che, insieme alla “Zaira” e all“Adelson e Salvini”, sembra essere stato definitivamente cassato dal repertorio. La scelta non è assolutamente casuale, e non solo perché il compositore catanese riscrisse larghe parti di quest’opera proprio per la sua riproposizione genovese del 1828 (di due anni posteriore alla prima napoletana), ma anche perché la presenza di alcuni spartiti autografi al Museo del Risorgimento del capoluogo ligure ha stimolato un convegno di studi nel 1979, i cui atti restano tutt’oggi la pietra miliare della critica musicale su di essa. Insomma, in tempo di ripresa e di riprese, di milioni perduti e identità ritrovate, “Bianca e Fernando” a Genova andava fatta, sebbene, siamo chiari, non si tratti esattamente di un capolavoro, a causa di un sinfonismo troppo accentuato (Bellini vi inserì praticamente tutta la “Sinfonia in Do minore” che aveva composto ancora studente, in conservatorio) e un soggetto sviluppato in maniera disomogenea dal giovane Gilardoni, cui nemmeno il più esperto Felice Romani riuscì a porre rimedio; inoltre la parte del tenore presenta una tessitura acutissima e impervia, di ragguardevole difficoltà e opinabile piacevolezza – purtroppo mantenuta tale anche in questa ripresa, e che ha causato non poco imbarazzo. D’altra parte è giusto riconoscere a “Bianca e Fernando” una peculiare freschezza compositiva, che Bellini stesso riconoscerà, attingendo alla partitura per arricchire quelle di “Zaira”, “Beatrice di Tenda”, “I puritani” e persino “Norma”, nel coro del Secondo Atto. Infine, anche qui possiamo riconoscere alcune pagine di quello che sarebbe diventato il Bellini universalmente acclamato, in particolare nella romanza di Bianca “Sorgi, o padre”, splendidamente accompagnata dall’arpa e con un sorprendente assolo di corno inglese a seguito della coda modulante, e in quella di Carlo (padre di Bianca, interpretato da un basso) “Da gelido sudore”. Forse è proprio per far fronte alla farraginosità del soggetto, o all’immaturità generale dell’opera, che questa riproposizione è stata affidata a uno dei registi e scenografi più visionari in attività, l’argentino Hugo de Ana, che non si è certo risparmiato: la sua idea, intellettualmente affascinante, è quella di trasportare la vicenda in un Ottocento distopico, che sembra uscito dai romanzi di Morris o Wells, a metà strada tra lo steampunk e “2001: Odissea nello Spazio”. La scena è dominata da una enorme sfera bianca, e i molti mimi presenti, continuano a muovere altre sfere, di varie dimensioni, per tutta la recita, in una specie di gioco dei mondi; l’altro elemento dominante è il reticolo, che vediamo sia come sfondo di neon, sia come rappresentazione del mare, dello spazio e del tempo attraversato da Fernando per tornare ad esigere soddisfazione dall’usurpatore Filippo. Accanto a questi simboli abbastanza classici della fantascienza, ecco costumi, armi ed elementi scenici tipicamente ottocenteschi, che per lo più si armonizzano in un’atmosfera quasi metateatrale, ove anche il domandarsi la ragione delle scelte di regia sembra perdere di senso. Il teatro di De Ana è un teatro di corpo e visione, di costruzione postmoderna senza un briciolo di didascalia né calligrafismo che ne infici l’assoluta onestà artistica. Insomma, è un take it or leave it: piace da impazzire o lascia disgustati. In questo caso è innegabile la fascinazione che subiamo dall’assetto scenico-registico (giacché non va dimenticato anche l’approfondito lavoro che opera anche sui personaggi e sulla loro costruzione, non solo sulla scena), benché ancora restiamo persuasi che, nel caso di un’opera praticamente sconosciuta ai più, forse una messinscena più vicina all’intento del libretto sarebbe stata non più auspicabile, ma sicuramente meno fraintendibile. E proprio dal momento che si tratta di un’opera rara, è giusto che anche noi rammentiamo la vicenda che vi si tratta: Fernando, figlio di Carlo, duca d’Agrigento, torna dopo diversi anni nella sua città per liberare il padre e restituirgli il trono usurpatogli anni prima da Filippo; a complicare il piano di redenzione si trova, tuttavia, Bianca, sorella maggiore di Fernando, che, sperando di poter ottenere salva la vita del padre, ha sposato l’usurpatore, che detesta, ma che ha in questo modo effettivamente risparmiato la vita di Carlo e anche quella del piccolo Enrico, figlio che Bianca ha avuto da un precedente matrimonio. Il personaggio tragico corneliano tipicamente scisso tra dovere di Stato e affetto personale è qui dunque non solo Fernando, che ovviamente vede in Bianca una traditrice, e del Ducato e del vincolo di sangue, ma anche Bianca, lacerata tra l’amore per il fratello e il desiderio di non scatenare la collera di Filippo. La soluzione a questo doppio nodo gordiano avviene per mano di un personaggio secondario, Clemente, fido di Fernando, che, nel momento di apice raggiunto sul finale, disarma Filippo e lo consegna all’amico. Anche raccontata per sommi capi, la vicenda mostra le sue eccentricità: l’amore – vero cardine dell’opera d’ogni tempo – è qui quello fraterno e filiale, e il momento di riscossa di Carlo viene in poche battute abortito dall’intervento di Clemente, che in questo modo impedisce la battaglia e lo scontro tragico tra fratello e sorella; infine lo stesso personaggio di Filippo perde di credibilità, poiché per tutto il dramma viene rappresentato come un villain di totale malvagità e machiavellica inclinazione all’intrigo, per poi lasciarsi letteralmente gabbare da un manipolo di pochi uomini. Nonostante queste asperità, il pubblico di ieri come di oggi, ha mostrato di apprezzare volentieri l’opera, merito probabilmente dei cast di altissima caratura (a Napoli nel 1826 Bellini ebbe a disposizione tre tra i massimi interpreti del suo tempo. Henriette Méric-Lalande, Giovanni Battista Rubini e Luigi Lablache, e due anni dopo, a Genova, fu il turno della Tosi con Giovanni David e Antonio Tamburini): Salome Jicia è stata una Bianca di indiscutibili fascino scenico e morbidezza lirica, tutta sorretta da un abile gioco di mezzevoci e pianissimi, ma capace anche di sorprendente tempra drammatica, senza tradire mai l’omogeneità della linea di canto; Nicola Ulivieri e Alessio Cacciamani hanno dato rilievo alle vocalità di basso, regalandoci un Filippo e un Carlo di grande intensità drammatica e di profonda consapevolezza musicale: i due interpreti, simili anche per colore vocale, hanno entrambi saputo far buon uso del fraseggio e mostrato solida tecnica, così da incarnare al meglio lo scontro tra sovrano legittimo e usurpatore, quasi i due volti di un’unica autorità; tra i ruoli di lato senz’altro spicca Viscardo, una delle ultime parti scritte secondo la logica del giovane eroico dalla tessitura femminile (che aveva prodotto il fenomeno dei divi castrati, soprattutto nel XVIII secolo), ben interpretato qui da Elena Belfiore, mezzosoprano genovese dalla vocalità piacevolmente pastosa e calda. Spicca invece per l’esecuzione più alterna il Fernando di Giorgio Misseri, senz’altro penalizzato da un ruolo, come si è detto, dall’inusitata estensione acuta: il tenore siciliano ha certo grande facilità nel reggere la tessitura, che sostiene e proietta con sicurezza, anche se l’ovvio uso del falsettone non suona sempre gradevolissimo; per il resto possiamo dire che Misseri ha saputo ben affrontare la parte, anche se, e ci pare inevitabile, nel secondo atto emerge un senso di stanchezza. Probabilmente, non si può ascrivere unicamente all’interprete la responsabilità per queste sbavature: il direttore d’orchestra avrebbe potuto “tradire” un po’ l’originale, non per facilitare il cantante, ma per assicurare al pubblico una più godibile resa. Considerato che il concertatore in questione è Donato Renzetti, quindi un grande direttore, ci può suonare un po’ insolita questa scelta “purista”; per il resto, la direzione di Renzetti è stata impeccabile, sia per dinamica che per agogica, con grande attenzione alla valorizzazione dei suoni orchestrali (legni e ottoni, soprattutto). Ci è parso invece discontinuo il coro,  forse anche per la collocazione scenica che conferiva una singolare ieracità alla compagine vocale, così come l’obbligo della mascherina, che, benché la regia di De Ana la contestualizzi appieno e benché ne sia chiarissima ai più l’effettiva utilità, certo ci auguriamo tutti di poter abbandonare presto, tanto più in scena.