Sesto Bruscantini (1919 – 2003): “Baritono sulla scena, tenore in casa sua”

Sesto Bruscantini (Civitanova Marche, 10 dicembre 1919 – Civitanova Marche, 4 maggio 2003)
Incontriamo Sesto bruscantini nel nuovissimo studio della Rai di Torino, non ancora ultimato, dove sta provando per la registrazione video de  Il barbiere di Siviglia. Esordisce dicendo: “Una volta bastava la bella voce: oggi per restare sulla breccia, bisogna saper cantare in modo “intelligente”, recitare, aver scena, e possibilmente, un bell’aspetto. E quando si tratta di opere comiche, come questa, le cose si complicano: la comicità in note non tocca il pubblico come lo tocca, invece il dramma. La Traviata, Il Rigoletto strappa le lacrime anche se uno non si prodiga troppo; ma Figaro, no. Per renderlo interessante si è dovuto complicarlo, aggiungendogli qualche migliaio di notte. il pubblico, probabilmente, non se n’é neppure accorto; ma noi si. E che faticaccia!”.
Parla come se tutto questo, in fondo, lo divertisse. Hal a voce profonda e l’accento romanesco, benché sia nato a Porto Civitanova e,  vicino a Macerata : d’altronde ha vissuto quasi sempre a Roma. Come dicevamo, l’attuale figura fu per diversi anni, un ottimo Boris. Sesto Bruscantini debuttò come basso nella Bohème verso il 1946 insieme alla Mafalda Favero: l’anno dopo sempre come basso, vinse a Torino il concorso nazionale per cantanti lirici: “Allora era addirittura “bassissimo”: facevo Sarastro nel  Flauto Magico di Mozart. Ma era logico che cominciassi così: una voce maschile non  educata spazia più facilmente nei toni bassi. Io non avevo precedenti canori in famiglia. Mio padre era avvocato, mia madre faceva la professoressa, e, come tutte le professoresse “parlava in testa”. Forse da lei ho ereditato una certa tendenza agli acuti”.
Nel 1954, il Festival di G
lyndebourne cambiò all’improvviso il suo orizzonte: “Ma sei sicuro”, gli domandò a bruciapelo e il maestro Vittorio Gui, che lo dirigeva, “di essere un basso?” Poiché nella vita non si può mai essere sicuri di nulla, Bruscantini gli rispose prudentemente di no. “Così l’anno seguente debutto come baritono nel Barbiere di Siviglia. Confesso che i miei primi Barbieri furono alquanto stiracchiati, poi, tutto andò meglio. Oggi mi sento benissimo nella mia nuova pelle e credo che sia proprio quella giusta”. Parliamo ora di Opera. All’interno della lirica la scala dei valori è cambiata: prima i cantanti erano al posto d’onore, poi lo cedettero ai direttori d’orchestra, che loro volta lo hanno ceduto ai registi. Tutti i registi “impegnati” hanno attualmente una “penchant” per l’opera: vi si dedicano con lo stesso fervido spirito di Pigmalione, cercando di intellettualizzarla, di portarla all’avanguardia, ma soprattutto di “svecchiarla e sprovincializzarla”. “Ed è proprio qui che sbagliano”, dice Bruscantini, smorzando il tono polemico col suo gentile sorriso. “L’opera è quello che è: vecchia, superata anacronistica. Ma è appunto in ciò che risiede il suo fascino. Trasformarla da capo a piedi, significa privarla autenticità. È lo stesso che rifare oggi delle sedie Luigi XVI. Oltretutto queste innovazioni finiscono per ritorcersi contro di noi: pensi soltanto alle scene. Le scene di un tempo, elementari, dipinte spesso su un fondo di cartapesta, avevano una loro precisa funzione: quella di avvolgere il cantante come una cuffia e spingere la sua voce verso il pubblico. Oggi è il cantante, attorniato da colonne vere, alberi in plastica e pannelli surrealisti, ha il  vuoto dietro e intorno a sé e grande parte dei suoi acuti si perdono in questo vuoto come in una conchiglia. E occorre molta più fatica, molta più voce per arrivare al pubblico. Le orchestre hanno un numero sempre maggiore di strumentisti, e di strumenti che perfezionandosi, sono aumentati di tono. In certi pezzi, della fine dell’Ottocento ad oggi, il cantante si è visto costretto ad aumentare il tono di quasi mezzo diapason. inoltre: il proscenio che era il punto più sonoro del teatro e spettava di regola il cantante oggi viene occupato dall’orchestra., mentre il palcoscenico, prima vuoto e sonoro, dovendo adeguarsi alle moderne esigenze delle scene sportabili automaticamente, si riempito a tal punto di macchinari da divenire perfettamente sordo “. “Il nostro è un mestieraccio”, prosegue Bruscantini, “Ma non vi rinuncerei per tutto l’oro del mondo. Forse perché sono costretto a forzare di continuo il mio temperamento: dobbiamo spostarci da un luogo all’altro a velocità supersonica, e io detesto viaggiare (me ne starei volentieri rintanato zitto zitto nella casina mia). Dobbiamo incontrare sempre gente nuova: ed io sono un timido. Dobbiamo fare delle levatacce per le prove: ed io adoro dormire; guardi ora, per esempio siamo qui a chiacchierare ed è la mezza, che per me rappresenta l’alba. Con Figaro è la stessa cosa. Si tratta del mio personaggio preferito, quello che ho interpretato di più, ho fatto tanti Figaro nella mia vita, che a volte penso che, se mi mettessi a fare il barbiere sul serio, di  quelli che stanno chiusi al lunedì, mi sentirei a postissimo. Eppure Figaro è tutto quello che non sono io: gigione, estroverso, millantatore. Proprio per questo mi diverto tanto “.
Malgrado tutto, il canto è rimasto l’hobby preferito di Sesto Bruscantini. “Io canto anche quando faccio il bagno: da tenore, naturalmente: punti i ruoli degli altri per me, come per tutti, rappresentano la massima aspirazione. Però cantare davanti agli spettatori è tutt’altra cosa. Il pubblico mi terrorizza e mi stimola. Tra me e lui c’è quasi una sfida che si rinnova ogni recita. Ho molti anni di teatro alle spalle e ho interpretato tantissime ruoli di basso e di baritono; tuttavia, ogni volta che esco sul palcoscenico è come se fosse la prima volta punto non si sa mai come potrà finire: se ad applausi o a fischi”. Sì, è un mestieraccio. ma divertente. “Partiam?”. Partiam: un saltello, pancia in dentro, passo incrociato e si torna a provare. (Estratto da “Sesto Bruscantini: baritono sulla scena, tenore in casa sua” di Donata Gianieri, Torino, 1968)