Milano, Galleria d’Italia: “Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei”

Milano, Gallerie d’Italia
GRAND TOUR. SOGNO D’ITALIA DA VENEZIA A POMPEI
Dal 19 novembre 2021 al 27 marzo 2022
Orari: dal martedì alla domenica: 9.30 – 19.30 / giovedì chiusura alle 22.30
Biglietti: Intero 10 € / Ridotto 8€
Era il 1996 quando alla Tate Gallery venne proposta l’imponente mostra Grand Tour. The Lure of Italy in the Eighteenth Century: ben 256 opere illustravano il fenomeno del Grand Tour. Approdò poi l’anno successivo a Roma, con anche qualche arricchimento nel catalogo. Negli intenti della mostra che è stata organizzata a Milano, sotto l’egida di Fernando Mazzocca, quella del ‘96 privilegiava la grafica, dando una lettura più documentaria e storica del fenomeno – anche se era comunque ricchissima di capolavori. In quella che ha ora luogo è stata preferita un’altra strada: parlare soprattutto degli artisti che hanno influito sulla trasmissione dell’Italia come sogno d’arte. Difatti, il Grand Tour non era intrapreso solo dai rampolli dell’alta società, ma anche dagli artisti e dagli studiosi (basti pensare a Winckelmann). Nonostante sia sostanzialmente impossibile riassumere in maniera esauriente in una mostra un argomento di tale portata, vengono efficacemente presentate circa 130 opere provenienti da svariate collezioni. Sono vari i fili conduttori che le legano. E non si poteva non cominciare con la passione per l’arte antica. Il suggestivo atrio dell’ex Palazzo della Banca Commerciale Italiana vede dialogare alcuni importati pezzi antichi (prestiti importanti pervenuti dal Museo Archeologico di Napoli) con statue Settecentesche. Effettuare restauri integrativi di pezzi antichi, o copie degli stessi, era un fenomeno molto diffuso. La tecnica dei copisti portò a risultati molto raffinati, come quelli di Carlo Albacini in mostra. È importante sottolineare che questa tecnica servì poi a Canova per svincolarsi dalla commissione. Infatti, i copisti ricavavano delle riproduzioni in gesso dai pezzi restaurati, da cui realizzavano delle copie di grande pregio per chi le ordinasse; Canova andò via via realizzando le sue creazioni in gesso, per realizzarle in marmo a chi poi le richiedesse. Proseguendo nel percorso, ci imbattiamo nelle capitali del Grand Tour: Venezia, Firenze, Roma, Napoli, la Sicilia. Abbiamo davanti le vedute di Vanvitelli, di Canaletto, di Lusieri, ecc. provenienti da importanti musei: è un fenomeno noto, erano richiestissime come fossero cartoline. Ma perché venire in Italia era così importante? Oltre alle opere d’arte, un motivo valido era senz’altro anche il fascino per le antiche rovine, il quale portò alla moda un nuovo genere artistico, quello del capriccio architettonico. Emblematiche le parole del diario di Goethe, che subiva il fascino delle rovine al chiarore della luna, tanto da arrivare a vedere nel Marco Aurelio del Campidoglio il Commendatore del Don Giovanni; lo stesso fascino che il protagonista della Recherche di Proust vede nella sua passeggiata notturna tra le ville di Combray: la luna materializzava i gradini scheggiati, gli zampilli delle fontane, i cancelli socchiusi come faceva Hubert Robert nei suoi dipinti, altro artista presente in mostra con tre tele. Ma si restava ammaliati anche dalla natura avvolgente i paesaggi dell’Italia mediterranea, e i risultati in termini artistici non sono solo quelli del vedutismo, ma anche quelli legati allo studio della natura e delle sue atmosfere. Anche in questo caso il risultato era spesso (nella sostanza) la produzione di un souvenir, e frequentemente era opera di pittori stranieri, i quali prendevano dimora in Italia per periodi più o meno lunghi: Hackert, Ducros, Jones, Patch, e così via. E gli esiti sono i più vari: dal particolarismo di Hackert, agli esiti quasi visionari dovuti agli eventi atmosferici che vediamo nel Temporale notturno a Cefalù di Ducros. E poi c’è il Vesuvio, che tra Settecento e Ottocento era attivissimo, con circa due eruzioni ogni dieci anni. Il risultato di ciò fu una delle prime realizzazioni pittoriche del sentimento di sublime davanti alle catastrofi naturali; sublime che fu filosoficamente messo in risalto a metà Settecento da Burke. Le sue continue eruzioni, che seppellirono nuovamente case su case (come avvenne per il centro storico di Torre del Greco, a due passi dalla villa dove sarà poi ospite il Leopardi de La Ginestra), fecero rivivere quello che successe in quel famoso 79 d.C.; e Volaire viene giustamente identificato tra i primi artisti di questo filone, presente in mostra con due tele. Poi, si passa al ruolo dei viaggiatori e dei collezionisti, che non solo erano alla ricerca di pezzi antichi o di opere d’arte moderna da collezionare, ma commissionavano anche ambiti ritratti: i due ritrattisti più richiesti furono Pompeo Batoni (a cui è dedicata un’intera sala) e Anton Raphael Mengs: i loro quadri divennero uno status symbol. La mostra poi sconfina anche nell’Ottocento, mostrando come il popolo italiano divenne un’interessante attrattiva folklorica. Cito qui la bellissima Anziana donna della campagna romana di Géricault (la cui capacità di scavo fisiognomico è nota, grazie alla serie dei ritratti di alienati); soggetto che ritroviamo anche in Schnetz qualche anno dopo in La chiromante o Buona ventura; ma voglio ricordare anche Pinelli, che divenne molto famoso per le incisioni, i disegni e i dipinti su questo genere popolaresco. Infine, l’argomento viene esaurito con i souvenir di lusso: centrotavola monumentali, coppe, bronzetti, e così via. Dopo aver passeggiato tra tutte queste opere mi è sovvenuta l’analisi storica di Francis Haskell. L’Italia del Seicento e del Settecento è un’Italia in declino, ancorata alle grandi commissioni dei grandi mecenati: quando l’aristocrazia feudale venne meno e la Chiesa fu sempre meno importante, “la caduta di Venezia [del 1797 ndr] significò anche l’umiliante fine dell’arte italiana”. Queste le sue ultime lapidarie parole. Il fulcro, secondo la critica consolidata, si sposterà oltralpe. Il testo di Haskell è datato, e in letteratura si è spesso partiti dalle sue varie posizioni per approdare a nuovi risultati, ma stabilire se veramente l’arte italiana finì con il Settecento è questione non di poco conto. Tant’è che Haskell stesso rifiuta un metodo univoco e sistematico di analisi delle varie situazioni. Occorrerebbe una sorta di contabilità di ambito artistico che non è possibile avere. Ma, aggiungo, bisognerebbe anche tenere in considerazione – ad esempio – cosa per arte si debba intendere: le copie, i souvenir di lusso, cosa sono? Arte meccanica? Lo stesso Canaletto, secondo Haskell, finì presto “per eseguire stereotipe versioni stenografiche delle vedute care ai turisti”, mentre Crespi non elevò mai il suo genere comico a qualcosa di più nobile. E la pittura di genere? Pinelli, ad oggi, è poco più che uno sconosciuto, mentre in quegli anni fu considerato un acuto indagatore delle fisionomie umane. E poi, bisognerebbe chiarire che cosa si intenda per arte “italiana”: Poussin era un artista francese o italiano? Stesso quesito, prendendo un artista in mostra, vale per Volaire, che visse e morì a Napoli. O anche per altri, che passarono periodi più o meno lunghi per poi rientrare in patria: quello che produssero in Italia è arte non italiana? Anche solo analizzando quanto visto in questa mostra, quindi, ricca di prestiti importanti e sufficientemente completa riguardo all’importanza degli esiti artistici che il periodo del Gran Tour comportò per l’Italia, la situazione merita di essere posta di nuovo sotto analisi.