Molière400: “Le preziose ridicole” (1929) di Felice Lattuada (1882-1963)

Commedia in atto su libretto di Arturo Rossato, da Molière.
Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 9 febbraio 1929.
Molière (Parigi, 15 gennaio 1622 – Parigi 17 febbraio 1673), a  400 anni dalla nascita.
L’opera in un atto, porta la data 1929, anno della trionfale prima rappresentazione scaligera.
Siamo nel decennio degli anni Venti che vide l’affermazione del teatro musicale di Felice Lattuada, sulla spinta, pure, di quel gusto internazionale “alla moda, che voleva riaprire un dialogo, in forma di rivisitazione, con il patrimonio dei secoli andati (vedi ad esempio il “Pulcinella” di Stravinsky): un patrimonio del tutto archeologico, soprattutto condizionato all’affermazione e alla ripetizione del grande teatro melodrammatico con ampie sottolineature nazional.
Nel caso delle Preziose ridicole, va evidenziata la determinante scelta di chiudere in un atto l’intero “plot” narrativo e drammaturgico della vicenda. L’atto unico, eredità della fase del realismo (o verismo) del melodramma nazionale, era stao altresì esaltato, in Germania, dal teatro di Richard Strauss, obbediva a quel carattere di rapidità e concisione, di intensità e di concentrazione, così caro al gusto spettacolare del tempo dunque la possibilità di abbreviare i percorsi melodrammatici a tutto vantaggio della sintesi complessiva. Tale sintesi poi, si poneva, nel caso delle Preziose sotto l’occhio è il verso di quel Molière che, della parola e dei giochi situazionali del lessico aveva costituito una sorta di vincolante abbecedario; e, soprattutto, il gioco e la volontà del travestimento su quella strada internazionalmente indicata da Richard Strauss con Arianna a Nasso e, proprio negli anni Venti, con talune situazione di commedia, derivate dal cavaliere della rosa. Dunque: un ricorrere alla pomposità e alla magniloquenza, alla “grandeur” (anche fonica), ed ha anche dell’orchestra, ambiguamente condotta sul filo del paradosso: contratta e lineare struttura drammaturgica, la cornice dell’atto unico: ampollose verbosa la parlata orchestrale debordante dal golfo mistico, quasi a sottolineare la cerimoniosità appariscente del  secentismo.  Tale secentismo, vissuto come una parodia formale, coinvolgeva il gioco delle parti, spingendo l’intrigo drammaturgico a specchiarsi nell’intrigo sonoro. Abbondano, così, in partitura le indicazioni di carattere “rappresentativo- “galanteria, frivolo è grazioso, esagerando comicamente” eccetera capaci di delineare il clima della vicenda, cogliendo, di questo clima il carattere di pura è dichiarata ironia. Tutto ciò porta a momenti francamente spassosi come nel “finto madrigale”, ovviamente inquinato nei termini e nelle movenze galanti erede anche questo, di altri finti Madrigali operistici o, ancora e la caricatura della “briosa e saltellante danza”, dove è proprio prescritto l’accento della canzonatura come impalcatura del tutto.
È lecito dunque parlare di un “divertissement d’epoca” non estraneo a talune scelte figurative dell’arte del tempo: laddove accomunato il ‘600 e ‘700 in stucchevoli decori d’epoca si evidenziava il carattere frivolo, arabescato in curva arrotondata così legata del gusto Decò. E di Decò si deve proprio parlare nel caso dell’opera di Lattuada, proprio per i suoi legami con il gusto del tempo: le sue preziose paiono uscite dai secentismi e settecentismi colorati di Ertè. La musica, per  taluni aspetti, si ispira tali modelli, evidenza  i prestiti e le forzature (si pensi alla scrittura vocale, con i tocchi di colorature e  di virtuosismo ad imitazione del “vecchio” melodramma), potenziando soprattutto, la vis comica la briosità del gioco salottiero e teatrale: la sua sapientissima maschera il cui volto è il quartetto centrale equamente giocato, sul piano serioso, dalle due preziose e sul piano dell’inganno dai due finti gentiluomini  (in realtà servi travestiti). Ma poiché le preziose stesse altro non sono che caricature in mano a loro artefice, ecco che la verità della finzione passa la mano (o meglio la voce) ai due finti gentiluomini: i quali cantano il “melodramma” così come lo potrebbero cantare, in chiave di beffarda goliardata chi del melodramma abbia scoperto l’aspetto più assurdo. Appunto il canto, appunto la voce, che si è fatto veicolo di banalità. Dopodiché tutto può succedere: poiché il meccanismo così oliato funziona a dovere, ingrana i tempi e i modi, rinserra nel suo marchingegno non solamente i quattro protagonisti, ma forse anche loro stesso compositore.
Da qui, un certo sviluppo dilatato del Quartetto, a compiacersi e a smarrirsi nel suo stesso inganno. Ingannati e ingannatori, a lora volta ingannano il pubblico, il quale pubblico si lascia travolgere dalla stessa caricatura di quello stesso teatro d’opera Qui si era abbandonato in maniera esclusiva. Noi ci troviamo più, così, nel vecchio teatro d’opera bensì in una modernissima “living room” Decò.  La musica che avvolge questo ambiente è musica d’accumulazione, di intrigante richiamo della memoria, che in qualche modo fa “arredamento” ma non antiquariato. Quanto piuttosto modernismo: se il modernismo è, anche strizzare l’occhio al passato ed inserire un materiale d’attualità nell’accademismo di uno stile.
La vicenda
La commedia di Molière (1659) che all’epoca ebbe tanta risonanza per la forza satirica con cui erano derisi i gusti, le smancerie, le affettazioni delle dame che si credevano eleganti e raffinate, vede due ragazze, Madelon (soprano) e Cathos (mezzosoprano), una figlia, l’altra nipote di Gorgibus (basso), ricco borghese, amanti di tutto ciò che è ricercato, elegante, sentimentale, sdegnando così di unirsi in matrimonio a due gentiluomini ritenendoli troppo volgari e comuni per i loro gusti. Ecco i gentiluomini respinti, Croissy (baritono) e Lagrange (tenore) all’inizio dell’atto, decisi a vendicarsi con una beffa che ordineranno senza pietà per le sdegnose damigelle. Al rustico Gorgibus, che parla di matrimonio rispondono che tutto è finito e se ne vanno motteggiandolo. Gorgibus sconcertato, chiama la vispa cameriera Marotte (soprano) e comanda che Madelon e Cathos, vengono all’istante al suo cospetto. Le ragazze irridono i gentiluomini che avrebbero voluto sposarle, provocando il furore di Gorgibus che minaccia di chiuderle in convento, poi sbuffando esce di casa. Le preziose si consolano  ben presto, all’annuncio che il Marchese Mascarille (tenore) chiede di  far loro visita. Ed ecco arrivare in portantina un ignoto cavaliere che porta fiori, sospiri e madrigali. Le ragazze si infiammano per lui, ancor più la loro meraviglia cresce, quando il visconte Jodelet (baritono) chiede di conoscerle e le incante con la sua figura di eroe alla battaglia di Arras. Si intreccia il più originale quartetto. L’idillio  fra le due copie, Madelon e Mascarille, Cathos e Jodelet, si trasforma in una festa improvvisata in cui le damigelle presentano agli invitati i loro sposi. La “Sarabanda” Si alterna alla “Corrente”. Ma sul più bello uomini armati di bastone irrrompono, afferrando Mascarille e Jodelet,  strappano loro gli abiti lussuosi e li lasciano nei loro costumi di servi. È la beffa dei due gentiluomini: Mascarille è Jodelet non sono che due servi da loro mandati per adescare le fanciulle. Generale scompiglio e risate degli invitati che lasciano la sala. Madelon e Cathos piangono dalla vergogna. La punizione non è però finita. Gorgibus rientrando si abbandona ad un clamoroso scoppio d’ira. Vorrebbe quasi percuotere le ragazze, (in Molière le bastona per davvero) e sfoga la sua rabbia sui volumi, sulle musiche, sui barattoli di belletti gettando tutto dalla finestra.  Dopo la sfuriata le ragazze  singhiozzano per il castello dei loro sogni crollati nel ridicolo e annichilite vanno verso le loro camere. Nell’oscurità del salone, rischiarato solo da un raggio di luna, Marotte, espressione della  sana anima popolare, getta il suo grido: “ridicole, ridicole!” e si butta sul divano parodiando lo svenimento delle padroncine. (estratto da “Le preziose ridicole di Felice Lattuada” di Bruno Cernaz, 1991)