Opera in tre atti e quattro quadri, dalla “piccola tragedia” omonima di Aleksandr Puškin. Prima rappresentazione: San Pietroburgo, Teatro Mariinskij, 28 febbraio 1872.
“Il convitato di pietra” occupò L’ultimo periodo della vita del compositore russo che lasciò compiuto solo nella stesura per canto e pianoforte. Dell’orchestrazione si fece carico Rimskij-Korsakov, ancora una volta chiamato al compito ammirevole, quanto discusso, di revisore e strumentatore di opere lasciate incompiute da compositori che gli erano amici. Per Il convitato di pietra Rimskij approntò due versioni orchestrali l’ultima delle quali, nel 1898, con qualche pretesa filologica (in quanto riporta, accanto alla alla stesura rimskyana l’originale di quei passi “fortemente modificati” in cui il revisore credette bene di “cambiare, addolcire, di modificare i rapporti armonici di certi passaggi”) è quella generalmente eseguita nel “problematico” cammino dell’opera e le sue sporadiche apparizione sulle scene europee (in Italia solo nel 1954, al Maggio musicale Fiorentino). “Il mio convitato di pietra volge alla fine”, scriveva Dargomyžskij poco prima di morire a un’amica. “Molti sono curiosi di sentirlo e quando l’hanno sentito si domandano perplessi che razza di musica è questa”. Perplessità che oggi si tramuta in grande interesse per un lavoro teatrale come ben pochi meritevole dell’ abusato attributo di “singolare”.
Si pensi all’anno 1869 che vide nascere il Convitato di pietra di Dargomyžskij che aveva alle spalle un’esperienza alquanto modesta di operista eclettico e convenzionale, sulle orme di Glinka; il Boris era ancora in gestazione e, in Germania, il Tristano era stato rappresentato e L’anello del Nibelungo era composto per metà: ma quasi certamente il nostro compositore non ne sapeva nulla e d’altronde Wagner, quando fece la sua comparsa con Lohengrin sulle scene di San Pietroburgo, venne accolto, secondo una testimonianza di Rimskij, “con perfetto disprezzo”.
L’isolata esperienza del ex impiegato ministeriale votatosi alla musica più per un atto di fede che per vocazione, si colora dunque dei toni della sconcertante originalità: e non tanto per gli intellettualistica rinuncia alle tradizionali forme operistiche del rivestire di note, con puntigliosa fedeltà, la “piccola tragedia” di Puskin ispirata al mito di Don Giovanni. Questo superbo atto di ribellione alle “imposture” del melodramma europeo di stampo corrente trae tutta la sua forza di convincimento e la sua vitalità estetica da altri presupposti, quali il ripudio, oltre che della forma chiusa (che appare due volte, con con intenti rigorosamente funzionali, nelle canzoni intonate da Laura) di qualsiasi altro ingrediente del mercato comune operistico del tempo. In altre parole, il no di Dargomyžskij non fu soltanto per l’aria o il concertato, ma anche per l’elaborazione armonica e tematica di Wagner.
I temi, Se così si possono chiamare, sono ridotti nel Convitato a piccole cellule che si susseguono per giustapposizione, mai per sviluppo., l’armonia, che rappresenta gran gran parte del fascino e della vitalità drammatica dell’opera, nel Convitato consiste in elementari successioni di accordi, con largo uso delle sovrapposizioni di terze maggiori e delle figurazioni ostinate. Non vi è nemmeno una complessità nel ritmo, vario ma ridotto perlopiù a minuscole figurazioni a fare da eco o da sfondo al canto sillabico. Abbiamo usato di proposito il termine “canto”, al posto del “declamato”, ad indicare l’unica arma con la quale il compositore osa avventurarsi tutto solo sulle “macerie” dell’opera, tendendo una mano a Puškin e cercando di misurarsi con lui. Un’arma duttile e sottile, affinata, senza farlo darlo a vedere, alla grande scuola del patrimonio popolare russo, ma quasi del tutto immune da slavismi, e che trova le sue migliori occasioni laddove maggiore è la sottigliezza psicologica del testo, come nella straordinaria scena in cui Don Giovanni, in abito da frate, circuisce donna Anna facendole riemargere la tenera e frustrata femminilità sotto le vesti vedovili (nel dramma, Anna non è la figlia, ma la vedova del Commendatore ucciso in duello da Don Giovanni). In questa mirabile capacità di penetrazione nelle zone più scure della coscienza e del senso – capacità raggiunta con una semplicità di mezzi addirittura provocatoria – e nell’estrema concentrazione di un dettato in cui vocalità e armonia paiono recuperare intatta l’antica pienezza espresiva, sta il valore di un’opera “unica”, il cui impegno ideale e il cui rigore strutturale sono, per noi moderni, ragioni di rinnovato fascino.
La vicenda
Atto primo Dopo l’uccisione del Commendatore (basso), Don Giovanni (tenore) torna temerariamente a Madrid dal suo esilio, accompagnato dal fido Leporello (basso), e subito riprende a corteggiare le belle dame. Ora è attratto dall’idea di conoscere Donna Anna (soprano) la vedova della sua vittima, alla quale antepone tuttavia la conquista di Laura (mezzosoprano), un’attrice per amore della quale non esita a sfidare a uccide e uccide in duello Don Carlos (baritono).
Atto secondo A causa di questo delitto, Don Giovanni è costretto a vivere, travestito da Monaco, lo stesso convento in cui è stata eretta la statua del commendatore, ai cui piedi ogni giorno Donna Anna viene a pregare. Approfittando di questa occasione, Don Giovanni corteggia la donna che, inizialmente sbalordita ima dal comportamento del finto frate, finisce per fissargli un appuntamento nella sua casa per l’indomani sera. Felice per la conquista, Don Giovanni invita anche la statua al convegno, e questa, con un cenno della testa, dà il suo assenso.
Atto terzo Don Giovanni, facendosi passare per un tale Don Diego, si reca da donna Anna e sta per aggiungere anche lei all’elenco delle sue vittime quando si ode bussare alla porta: è la statua del Commendatore che entra e, mentre donna Anna sviene, stringendo tra le sue dita di pietra la mano di Don Giovanni, lo trascina via con sé.