Milano, Teatro Franco Parenti: “Costellazioni” di Nick Payne

Milano, Teatro Franco Parenti – Stagione 2021-22
COSTELLAZIONI
di Nick Payne traduzione Matteo Colombo
con ELENA LIETTI e PIETRO MICCI
Regia Raphael Tobia Vogel
Scene e Costumi Nicolas Bovey
Luci Paolo Casati
Produzione Teatro Franco Parenti / TPE – Teatro Piemonte Europa
Milano, 09 febbraio 2022
“Costellazioni“ del britannico Nick Payne è uno di quei testi della drammaturgia contemporanea che negli ultimi dieci anni è diventato quasi un classico: messo in scena in molti Paesi, ha già visto una sua première anche in Italia (al Florian Espace di Pescara), accogliendo quasi sempre positive reazioni di critica. Questo è il bello del nostro lavoro: la qualità, addirittura l’identità di una stessa opera teatrale, a seconda di chi la interpreti, di chi la guardi, a distanza di tempo e di spazio differenti, può cambiare, anche radicalmente. Non stupiamoci, dunque, se ciò che dieci anni fa sembrò la consacrazione di un nuovo grande autore, oggi mostri tutti i limiti del caso, benché la versione della pièce di Payne prodotta recentemente al teatro Franco Parenti di Milano (e non senza riscontro, tanto che si sono dovute aggiungere delle date supplementari) non abbia nulla effettivamente che non vada: Elena Lietti e Pietro Micci nei ruoli dei protagonisti sono adeguati; la messa in scena poco tradizionale di Nicolas Bovey – un palco posizionato di sbieco in mezzo alla sala, e il pubblico diviso in due ali ai suoi lati – ha un suo fascino; singolarmente riuscito è il disegno di luci di Pietro Casati, su cui si impernia l’intera regia, che usando gli effetti di otto proiettori motorizzati e un paio di superfici riflettenti crea e distorce lo spazio scenico, simulando pioggia e reti nei quali i personaggi restano impigliati. L’errore, poiché c’è un errore, è la scelta stessa di un testo che oggi si rivela in tutta la sua pretesa, l’ordinarietà di un dramma che sceglie un pretesto compositorio (ripetere quattro volte ogni scena, con quattro esiti diversi) per coprire la sua sostanziale inconsistenza: il tema della malattia, che vuole essere il cuore drammatico della storia d’amore tra i due protagonisti, non solo non è nuovo (ma sfidiamo chiunque a portare qualcosa di nuovo su un palcoscenico oggigiorno), ma ripone la sua profondità non nella parola letteraria, ma nella capacità espressiva dell’interprete – in questo caso in Elena Lietti, che adotta uno stile recitativo dalla finta naturalezza visto e rivisto nelle produzioni off odierne (quello che in maniera altisonante si vuole chiamare “stile postdrammatico“ e vorrebbe rifarsi al travalicamento del limite tra attore e personaggio, in realtà ottenendo solo l’effetto di un posticcio colloquiale e personalistico – come l’idea di inutile importanza drammaturgica di ribattezzare i due protagonisti con i nomi dei due attori, al posto che mantenere i nomi inglesi di Marianne e Roland); Pietro Micci, dal canto suo, costruisce un personaggio più credibile sul piano emotivo, dotandolo di una calda vocalità baritonale e una fisicità gentile e irruenta allo stesso tempo. La regia di Raphael Tobia Vogel appare, se c’è, alquanto labile, e non sarebbe necessariamente un male, se ci trovassimo di fronte a un testo profondo, importante. Avendo a che fare invece con poco spessore, rimpiangiamo un’idea forte di direzione attoriale o di impianto scenico, e si rimane perplessi di fronte a movimenti e posizioni più simili a esercizi da laboratorio che a un’effettiva regia. Nel suo complesso uno spettacolo gradevole, ma che fatica  a decollare, principalmente a causa del grande assente dai palcoscenici italiani degli ultimi anni: il valore del testo, la Letteratura.