Milano, Teatro Franco Parenti – Stagione 2021-22
“TROIANE”
Da Euripide, traduzione e drammaturgia Angela Demattè
Ecuba ELISABETTA POZZI
Taltibio GRAZIANO PIAZZA
Cassandra FEDERICA FRACASSI
Andromaca FRANCESCA PORRINI
Elena ALESSIA SPINELLI
Regia Andrea Chiodi
Scene Matteo Patrucco
Costumi Ilaria Ariemme
Luci Cesare Agoni
Musiche Daniele D’Angelo
Produzione Centro Teatrale Bresciano
Il 15/02 a Cuneo; da Qui le altre date della tournée
Milano, 11 febbraio 2022
La produzione delle “Troiane“ del Centro Teatrale Bresciano, per la regia di Andrea Chiodi e la drammaturgia di Angela Demattè, vorrebbe avere il merito di ripresentare al pubblico un testo assoluto, intoccabile e immortale, di fatto, però, relativizzandolo, ritoccandolo parecchio e quindi uccidendolo. Gli errori in cui il regista e la sua compagna incorrono sono di vario tipo, e se su quelli più sottili possiamo soprassedere, altri, decisamente grossier, non possono essere francamente perdonati; ci riferiamo, ad esempio, a un testo deliberatamente ben tradotto e malamente tagliato, nel quale non esistono i personaggi di Atena, Poseidone e Menelao, ed Elena è una specie di YouTuber priva di alcun fascino e dal fare esageratamente grottesco e stereotipato; un testo spogliato di qualsivoglia suggestione rituale, corale, collettiva: lo stesso titolo “Troiane“ perde di senso, giacché non esiste in questa versione il gruppo delle prigioniere Troiane, ma quello che è un sostantivo si relativizza in un semplice aggettivo di nazionalità, dal momento che troiane sono tre delle quattro protagoniste, che intervengono in quanto singole – come Euripide, d’altronde, le aveva pensate. Il coro, qui, viene trasformato in una call di Zoom, idea attuale, troppo attuale, per poter già essere metaforizzata in un atto estetico; la scena finale del corrotto generale sulla caduta della città (di grande impatto, da ogni punto di vista) viene omessa, appiattendo anche le dinamiche tra Ecuba e Taltibio – unico personaggio maschile pensato dalla drammaturga e portato avanti con ambiguo savoir faire da Graziano Piazza, a cavallo tra ironia fuori luogo, violenta obbedienza e richiamo all’umanità. Infine, il testo viene interpolato con altri testi, alcuni più azzeccati (come il “Monologo di Cassandra” di Wisława Szymborska), altri meno felici (abbiamo veramente bisogno di un’Ecuba che improvvisi una specie di rap su “Alle fronde dei salici” di Quasimodo, o che suggelli la condanna a morte di suo nipote con l’ultima quartina di “X agosto” di Pascoli?) e altri ancora quasi imbarazzanti (rabbrividiamo al pensiero di aver inteso un ritornello degli Smiths tra le parole di Taltibio), in ogni caso non necessari e solo in parte godibili e fruibili. Questa drammaturgia pasticciata, già di per sé poco rispettosa dell’originale, viene ulteriormente appesantita dalla recitazione di Elisabetta Pozzi (Ecuba): dispiace dirlo, ma nell’ascoltarla ci torna in mente la buona Anna Marchesini, quando parodiava le attrici del Piccolo Teatro, con le loro intonazioni sghembe, la perenne accentazione sull’ultima sillaba, le modulazioni quasi canore della sintassi più complessa; ora, la Pozzi, certo, appartiene a quel mondo e a quella generazione, tuttavia oggi la sua recitazione suona tristemente archeologica, inadatta, nonostante si tratti di un contesto tragico. Francesca Porrini, nella parte di Andromaca, le fa da contraltare, rimanendo, però, invischiata nel problema opposto: la grande naturalezza con la quale affronta il ruolo rischia di stereotiparne la sfera emotiva su un generale “sofferto“ dalla voce rotta e dall’emissione di gola; certo non di gola recita Alessia Spinelli, Elena, per due ragioni, sostanzialmente: parla ad un microfono, e parla di naso; unica attrice che c’è parsa credibile, sincera, indiscutibilmente “dentro il personaggio“ è Federica Fracassi, una Cassandra intensissima, ricca di un’intera gamma di possibilità espressive, che ha nobilitato la scena. Ed è esattamente questo il problema maggiore di questa produzione: sfugge alla nobiltà del testo, alla sua estetica letteraria e artistica più in generale; al contrario sembra che Chiodi e lo scenografo Matteo Patrucco vogliano chiaramente svilire la potenza euripidea, mettendo una latrina in scena senza che abbia alcun senso, ponendo il cadavere del piccolo Astianatte nel coperchio di un bidone della spazzatura, trasformando Elena in una donna sciatta, mascolina, volgare, cui vengono messe in bocca ridicoli luoghi comuni sulla bellezza, invece del subdolo ricamo giustificativo pensato da Euripide, come se la bassezza sia l’unico punto di contatto con cui il pubblico possa ritrovarsi; francamente, noi crediamo che il pubblico di una tragedia greca vada accompagnato in un’esperienza delle più alte, e in questa versione, a parte l’interpretazione della Fracassi e qualche suggestiva atmosfera ricreata dalle musiche di Daniele D’Angelo e le luci di Cesare Agoni, questo purtroppo non avviene. Foto Masiar Pasquali