Pier Paolo Pasolini (Bologna, Quartiere Santo Stefano 5 marzo 1922 – Roma, Lido di Ostia, 2 novembre 1975)
Pasolini, eternamente giovane. Pare di vederlo… avvolto dalla «caciara» dei ragazzetti delle borgate romane, che – tutti «acchittati» e «ingrifati» – se ne vanno – schiamazzando – a «rimorchiare»; «Nessun ragazzo – deve, poi, amaramente ammettere nella Lettera aperta a Calvino («Paese sera», 8 luglio 1974) – sarebbe più in grado di capire il gergo dei miei romanzi [Ragazzi di vita, ad esempio] di dieci-quindici anni fa». Quel gergo dialettale che, nel 1955, scandalizza l’Italia piccolo-borghese e democristiana. Poveri ragazzi!, tutti «conformisti e tutti uguali uno all’altro», tutti divorati dalla medesima ansia, quella del consumo, a cui tutti – studenti e ragazzi del popolo – si ritrovano ad obbedire: l’hanno accettata senza resistenze, sacrificando – sopra l’altare dell’edonismo consumistico – le loro particolari identità. Uno degli effetti principali di questa “uguaglianza” è un’angosciante tristezza. I ragazzi non sono più allegri: gli studenti si ritrovano a blaterare come dei libri stampati; i ragazzi sottoproletari, delle borgate, paiono a Pasolini come deformati, dentro e fuori, dall’incivile civiltà consumistica, vittime – ormai – d’una trepidante volontà d’uniformarsi.
Ma, alla tristezza dei ragazzi, egli contrappone la sua straordinaria, irresistibile, disperata vitalità. Ed eccolo – col suo giubbotto in pelle e i suoi jeans a gamba larga – a camminare per dei vicoli dell’indiana Bombay (Mumbai, adesso), tra bottegucce, baracche e casamenti in disfacimento… qui, dove il tanfo di sterco di vacca ed il fetore degli stracci gli paiono inebrianti; ed eccolo – protetto dalle lenti scure dei suoi occhiali – a girare per l’Appia e per la Tuscolana, «come un pazzo», «come un cane senza padrone», come precisa in 10 giugno, un’ode a se stesso, in cui – stupendamente – si ritrae. Quest’ode, viva testimonianza della sua genialità: poeta, regista, sceneggiatore, pittore… in vita, vittima d’una sistematica mistificazione della sua Opera; oggi, il linciaggio dell’Italietta piccolo-borghese prosegue. Ed accade sui social: frasi, estrapolate dai testi, orrendamente travisate; immagini di nudi artistici, che vivificano la sua produzione cinematografica, trattate alla medesima stregua d’una volgare immagine pornografica… e, dunque, sistematicamente censurate. Nel suo cinema – nella Trilogia della vita (Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte), 1971-74 – la rappresentazione dell’organo sessuale è un atto politico: ideologia sbattuta in faccia ad un pubblico moralista; sbattuta in faccia anche, e soprattutto, al censore, che – rimuovendo quelle immagini dai suoi film – ne rimuove anche il contenuto politico. Perché Pasolini giunge alla libertà di rappresentare atti e gesti sessuali, fino a giungere alla rappresentazione, in primo piano, dell’organo sessuale? Perché «Anche il sesso nella sua estrema e indifesa nudità – che è parte immensa della vita reale – ha diritto di essere espresso e rappresentato. […] Al fondo della mia rappresentazione […] degli atti del sesso, c’è dunque l’esigenza della totale rappresentabilità del reale, intesa come una conquista civile.» (Libertà e sesso secondo Pasolini, «Corriere della Sera», 4 febbraio 1973).
Il 5 marzo del 2022 ricorre il centesimo anniversario della sua nascita. Bene: festeggiamolo! Tributiamogli scritti e pubblicazioni! Ma, rendiamogli giustizia! Sui social, rispettiamolo!… perché – citando ciò che Moravia disse al suo funerale – di «poeti non ce ne sono tanti nel mondo; ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo». E noi, il Poeta del ventunesimo secolo, ancora l’attendiamo.
Immagine di copertina: Gideon Bachmann, Pier Paolo Pasolini, 1975. Archivio Cinemazero.