Dramma lirico in quattro atti su libretto di Arturo Rossato, tratto dal romanzo “La leggenda di Gösta Berling” di Selma Lagerlöf. Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 7 marzo 1925.
Nella primavera del 1924, Riccardo Zandonai allora quarantenne, viveva a Pesaro, la città a cui si era affezionato fin da ragazzo, quando vi era giunto per frequentare al liceo Rossini, le lezioni di Pietro Mascagni. Abitava una casetta in via Massimo d’Azeglio, circondata da un minuscolo giardino a cui teneva moltissimo. Il caprifoglio, il melograno, ” la parola delle piante più umili ” (come lui stesso si esprimeva) godevano della sua amorevole attenzione, non inferiore a quella verso le sue partiture. Ripeteva spesso:”Guardo il mio roseto fiorito come una bella pagina di musica “. Dopo la Conchita, Francesca da Rimini e Giulietta e Romeo, stava per nascere la sua settima creatura teatrale dobbiamo fare tipo, I cavalieri di Ekebù: dramma lirico che doveva essere il felice epilogo di una storia d’amore per i paesi nordici, per la loro letteratura, per le loro musiche. La scintilla gli venne da un consiglio di Carlo Clausetti, che gli volle far conoscere La leggenda di Gösta Berling, una romantica epopea della provincia svedese scritta dalla poetessa Selma Lagerlöf che aveva ispirato nel 1923 a Maurice Stiller il film omonimo, uno dei primi interpretati da Greta Garbo.
La Lagerlöf fu giustamente soprannominata “L’anima lirica della Svezia”. E l’anima di Zandonai, abituata al fascino dei paesaggi del suo paese natale nel Trentino fu subito catturato da quella della Lagerlöf, pure abituata a scrivere con il cuore vicino alla natura, alle foreste, ai laghi, alle rocce. Zandonai fu attratto immediatamente dell’antica leggenda del Wärmland, la regione dove nacque la scrittrice. Gösta Berling (tenore), un prete bizzarro e alcolizzato, in seguito ad alcune drammatiche vicende, tra cui una denuncia al Capitolo, viene allontanato dal presbiterio. Vagabondo, s’imbatte ed è accolto nel Circolo dei “Cavalieri di Ekebù”, un gruppo di “Bohèmiens” diseredatii e sperduti, di spensierati ex militari, ospitati e governati dalla signora delle ferriere, la Comandante (mezzosoprano). Ella ha riportato i suoi Cavalieri all’amore per il lavoro, alla più profonda solidarietà umana.
Dopo l’arrivo di Gösta nonché per la cattiva influenza di un altro nuovo ospite, Sintram (baritono) – padre di Anna (soprano), la fanciulla amata da Gösta -, la discordia si insinua a poco a poco nella singolare compagnia. La Comandante, accusata pubblicamente di adulterio, è allontanata, costretta a girovagare per le vaste terre sepolte nella neve. I Cavalieri si abbandonano il vino, al vizio e alla pigrizia, dissipano le ricchezze accumulate. Alla Ferriera di Ekebù si è dimenticato il ritmo del lavoro. La presenza di Gösta porta sfortuna. I cavalieri non sono più stimati, bensì disprezzati da tutti. Poi, per porre fine alla rovina, decidono la ferriera dve ripartire. La Comandante ritorna finalmente, ma non più come per padrona: è venuta a morire tra i suoi uomini. le sue ultime parole sono di perdono. E le le officine si rianimano come un tempo.L’opera in quattro atti, sul libretto di Arturo Rossato, ultimata nel 1924 a Cavalese in Val di Fiemme, fu rappresentata la prima volta alla Scala il 7 marzo 1925 sotto la direzione di Arturo Toscanini. Nonostante il caratteristico ardore poetico che sapeva infondere nelle esecuzioni il grande direttore d’orchestra e nonostante gli ottimi cantanti: Elvira Casazza, Franco Lo Giudice e Benvenuto Franci, l’o opera non ottenne il successo che meritava. Ben diverse fu l’accoglienza al teatro reale di Stoccolma, tre anni dopo, il 20 novembre 1928, in occasione del settantesimo anniversario della nascita di Selma Lagerlöf. L’apparire di Riccardo Zandonai sul podio fu annunciato, come per i sovrani, da squilli di tromba; la “capote” del suggeritore era avvolta con colori della bandiera italiana. Zandonai fu decorato da re Gustavo dalla più ambita onorificenza svedese, cioè della Commenda di Gustavo Vasa. In Svezia l’opera venne rappresentata di frequente. “Cè un solo rammarico – confessò Zandonai – che l’autore non sia svedese…La Francesca è l’opera della mia giovinezza: I Cavalieri è l’opera della maturità. Ho fede viva nell’avvenire dei miei Cavalieri: in questo lavoro volli che personaggi del dramma, alcuni dei quali hanno forza e valore di simbolo, rivivessero nella loro anima nuda e cruda, con il loro tormento e la loro fatalità “. Spoglia di ogni” fronzolo accademico e scolastico “, come è stato giustamente riconosciuto, la partitura ha un suo alto è nobile vigore che conferisce dignità e umanità alle figure del dramma. Il canto, solistico o corale, è sempre intenso, aperto all’impeto lirico; l’orchestra, lavorata con matura accuratezza, ha tinte smaglianti, splendidi contrasti. Fra le pagine più ricordate ricordate dell’opera, basta citare la scena dell’invettiva dei cavalieri, nel terzo atto, e il grande finale dell’atto quarto con l’inno orchestrale che sale con meravigliosa potenza ed efficacia di cui la critica ebbe molto a parlare, con tono ammirato ed entusiastico. Immagini Archivio Storico Ricordi