Napoli, Teatro Bellini: “Ritratto di uno di noi”

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2021/22
“RITRATTO DI UNO DI NOI”
Drammaturgia di Francesco Ferrara
La Classe LUIGI ALESSIO ADIMARI, ROSITA CHIODERO, SALVATORE CUTRÌ, CLAUDIA D’AVANZO, MICHELE FERRANTINO, LUIGI LEONE, ANDREA LIOTTI, ELEONORA LONGOBARDI, SIMONE MAZZELLA, SALVATORE NICOLELLA, MANUEL SEVERINO, ARIANNA SORRENTINO, MARIA FRANCESCA DUILIO, CHIARA CELOTTO
Regia Gabriele Russo
Aiuto regista Salvatore Scotto D’Apollonia
Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Napoli, 22 aprile 2022
Per farla finita col «teatro della Chiacchiera», occorre farla finita con la rappresentazione. Per dirla con Moravia, Pasolini e Carmelo Bene. Chi legge potrebbe obiettare: «E allora… come si fa a sottrarre il teatro ad una rappresentazione, ad una narrazione d’eventi e fatti? il teatro, dopotutto (al netto della Neoavanguardia), non è rappresentazione dotata di senso e senno – inquadrata, dunque, entro le convenzionalità degli atti linguistici?». Certo… ma, la neutralizzazione della rappresentazione può avvenire soltanto non rappresentando, pur rappresentando… ed è ciò che è accaduto al Bellini. Quello del drammaturgo Francesco Ferrara, infatti, è un non-teatro: Ritratto di uno di noi è la rappresentazione dei prodromi della rappresentazione. Essa, cioè, coincide con delle prove teatrali. Ciò che accade prima d’una rappresentazione viene formalizzato, regolamentato, messo, cioè, sulla scena. Un gruppo d’attori, ex allievi della Bellini Teatro Factory, s’accordano su come mettere in scena dei fatti – peraltro, effettivamente accaduti: Norvegia, luglio 2011: Anders Behring Breivik, terrorista neonazista, massacra ed ammazza settantasette ragazzi d’un campo estivo, sull’isola d’Utøya. Gli attori, però, restano nei loro panni d’attori. Stanno, cioè, ancora spartendosi i ruoli, dando forma ad un teatro che potremmo definire “di transizione”, e non soltanto per gli aspetti già detti: esso, non essendo fino in fondo teatro neoavanguardistico, è teatro di Transavanguardia – volendo prendere in prestito questo neologismo dal suo papà, Achille Bonito Oliva, critico d’arte. Neologismo che, in questo caso, occorre riadoperare in un senso generico, perché utile a noi soltanto per definire un teatro che non è né tradizionale e né sperimentale, ma un po’ tutti e due. La raffigurazione dei fatti, organicamente, non c’appare, dunque, come una rappresentazione effettiva, ma, come una sequenza di finte prove teatrali che rinviano, astrattamente, ad una pseudo-rappresentazione, la cui struttura è un ibrido tra più forme. Questo teatro, cioè, comprende due forme teatrali del Novecento: Psicodramma e Teatro pirandelliano. È d’ispirazione pirandelliana non soltanto l’inesistenza dello spazio scenico, ferocemente illuminato ed occupato soltanto da sedie. Ma, allo smantellamento e all’eliminazione dello spazio teatrale (provenienti da Sei personaggi in cerca d’autore), s’aggiungono altri due dati, altrettanto pirandelliani: lo svelamento dei prodromi della rappresentazione, e dei vari elementi che concorrono alla sua formazione, e lo sfondamento della quarta parete – praticato da un attore che, per breve tempo, s’accomoda su d’una poltrona della platea. Gli elementi pirandelliani vengono, dunque, innestati da Gabriele Russo, regista, e da Salvatore Scotto D’Apollonia, aiuto regista, in una forma più ampia, nella cornice d’uno psicodramma. La lettura del copione, l’enunciazione d’idee o ripensamenti, gli alterchi, la ricerca – da parte degli attori – d’una verosimiglianza registica… tutto ciò (coll’illusione, però, che sia il prodotto del caso o dell’istantaneità, della spontaneità), formalmente, viene inquadrato e risolto in una concatenazione di prove teatrali tanto simili a terapie di gruppo. Soltanto che, in questo caso, gli attori non si prefiggono la risoluzione dei loro conflitti interiori… ma, pretendono d’imbarcarsi in una catarsi impossibile. S’identificano, a turno, nel mostro neonazista e nelle vittime, dando loro voce e corpo – e pretendendo così d’ottenere, dalle loro abilità attoriali, una perfetta rievocazione dei fatti e degli eventi… ma, vanamente: la crudeltà è tanta e la rappresentazione pare irrealizzabile. Dunque, alla fine, non resta loro che rinunciare ed elencare i nomi delle vittime. Un sottotitolo della pièce potrebbe essere, infatti, Quattordici attori in cerca d’una regia perfetta. Questa ricerca avviene attraverso un linguaggio tutto vibrante, nervoso, nelle sue variazioni ed inflessioni d’intonazioni. C’appare come un canto collettivo, poiché attraversa ogni attore. Un canto perfettamente accademico, che procede in modo variegato: il corpo di questo linguaggio oscilla tra potenzialità espresse e inespresse, tra la sincerità d’un finto errore e l’ispirazione della finta improvvisazione. Un linguaggio che reca in sé caratteri d’una significante schizofrenia: dall’urlo a paroline bofonchiate, da incisi in napoletano all’ossessa ricerca d’una correttezza espressiva. Questo metamorfico giochetto, ovviamente, viene tutto interiorizzato in finte prove teatrali: un ingranaggio, i cui pezzi tratteggiano movimenti collettivi dalle forme vagamente geometriche; sulla scena, dunque, si fissano in una semiellisse e in forme varie. Disegni geometrici che, sistematicamente (allargandosi, restringendosi o sformandosi), subiscono inaspettate e nevrotiche variazioni, dettate da movimenti scientemente enfatici. Fingere errori e borbottii, approssimazioni o cadute testimonia la capacità d’un attore. Ottimi, dunque, tutti gli attori nei panni di sé stessi, non soltanto metaforicamente parlando: Luigi Alessio Adimari, Rosita Chiodero, Salvatore Cutrì, Claudia D’avanzo, Michele Ferrantino, Maria Francesca Duilio, Chiara Celotto, Luigi Leone, Andrea Liotti, Eleonora Longobardi, Simone Mazzella, Salvatore Nicolella, Manuel Severino, Arianna Sorrentino.Ai
Al netto di tutto ciò che s’è detto, bisogna aggiungere che la drammaturgia c’appare come un continuum variegato ed estremo, un concatenamento d’intense e scattanti immagini, collocate entro una struttura geometricamente e ritmicamente organizzata. Ovvero: immagini d’una potente intensità s’alternano ad immagini d’una soffocata e repressa irruenza; immagini tutte comunicanti, in cui finzione vera e finzione finta (finzione nella finzione, cioè) s’intrecciano e s’accavallano. Ciò rende lo spettatore vittima d’un processo d’alienazione rispetto all’immagine che sta osservando: è la presa di coscienza dell’irrappresentabilità dei fatti raccontati. Successo di pubblico tutto attento ma, ahinoi, poco numeroso.