Dal 13 maggio 2022 al 18 settembre 2022
Orari: lunedì 14.30 – 19.00 / da martedì a domenica 9.30 – 19.30 / giovedì e sabato chiusura alle 22.30
Biglietti: ingresso libero
Dal Mudec abbiamo ricevuto un piccolo regalo: dal 13 maggio, c’è la possibilità di visitare a ingresso libero la mostra La Voce delle Ombre. Presenze africane nell’arte dell’Italia settentrionale (XVI – XIX secolo), a cura dalla Conservatoria del Mudec. Si tratta di una delle prime in Italia dedicata alla rappresentazione di uomini e donne originari del continente africano, e più in generale sullo schiavismo nel Nord Italia fra Rinascimento e Ottocento. Nell’intenzione dei curatori, che ci hanno accompagnato in anteprima tra le sale di questa piccola mostra, c’è la volontà dichiarata di segnare un punto di inizio, l’aver sollevato un problema storiografico che potrebbe porre inizio ad un nuovo filone di studio nel settentrione nella nostra penisola, il quale ne segue uno internazionale (per cui sono state anche istituite borse di studio). L’intenzione non è quindi quella di voler fare una mostra di bei quadri, o perlomeno non solo. Se si nomina lo schiavismo, di primo acchito il pensiero va alle piantagioni americane, ma non ci fu sono quello. Per quanto riguarda il Nord Italia, e Milano nello specifico, il breve percorso della mostra prende avvio da un documento di fine ‘400, che certifica la compravendita di uno schiavo nero. È proprio da questa pergamena che emerge il primo punto focale: questi schiavi venivano battezzati con nomi italiani, rendendo la stima della loro presenza in Italia molto difficoltosa (se tutti loro vengono battezzati, ad esempio, con nomi del tipo “Giovanni” la loro esistenza negli archivi viene totalmente oscurata e parificata a quella degli altri). Nonostante si stimi che in Italia, dal ‘500, ci potessero essere sui 40-50.000 schiavi, i numeri reali sono impossibili da rintracciare, date queste difficoltà. E se per Genova o Venezia la presenza di schiavi neri è più o meno accertata da varie fonti, oltre che essere giustificata dal fatto che si tratti di porti di mare, per Milano la situazione è più oscura: è anche per questo che la mostra allarga il suo orizzonte a tutto in Nord d’Italia. Proseguendo, il Ritratto di Laura Dianti con paggio di Tiziano, purtroppo presente in mostra con una incisione d’epoca, mostra un secondo “filone” della mostra: la consuetudine per i notabili a farsi ritrarre a fianco di un servitore nero, o una servitrice. Infatti, diventa un’abitudine così diffusa che spesso risulta difficile stabilire se il servo nero ritratto in alcuni quadri sia esistito realmente, o sia piuttosto un’aggiunta del pittore, voluto dal committente “per moda”. Sappiamo, infatti, che Isabella d’Este ordinò di acquistare una moretta “il più negra che possibile”, poiché il loro prezzo era molto più alto rispetto a quello degli schiavi provenienti dai Balcani o dal Mar Nero. Una ricerca di prestigio, quindi, che portò alla scoperta di tutto ciò che fosse esotico o raro a trovarsi, e che si rifletté anche sulle “pittoresse”, ad esempio: i loro quadri furono ambiti tanto quanto degli oggetti esotici, quelli che a volte si ricercano solo perché provengono da lontano, e sono poi trattate alla stregua di chicche atte a darsi un certo tono e prestigio. Ma non si può fare di tutta l’erba un fascio. Se di alcuni servi ci chiediamo se siano vissuti realmente o meno (com’è per il Ritratto di nobildonna con servitore da Villa Arconati), siamo invece certi dell’esistenza del servitore del Conte Manara, e dell’amore provato nei suoi confronti dal suo padrone: si riflette nella coppia di bei ritratti dipinti dal Piccio (uno dei quali è stato utilizzato per la locandina della mostra), e dal componimento che il Conte commissionò alla morte del suo amato servitore. E, nonostante ciò, pure di questa persona non conosciamo il nome! L’Adorazione dei magi del Genovesino ci introduce poi all’iconografia religiosa, una terza via in cui le persone di colore compaiono nei dipinti. Baldassarre diventa il magio nero proprio a fine ‘400 (sembrerebbe, con la famosa Adorazione di Mantegna al Getty Museum, non in mostra), e testimonierebbe il fatto che tutti i popoli, anche quello africano, possono trovare la salvezza in Gesù Cristo. Tra l’altro, secondo un filone di esegesi biblica, consolidatasi nel periodo medievale, gli abitanti dell’Africa discenderebbero da un figlio maledetto di Noé (“Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!”, si veda Genesi 9: 24-27), tanto da arrivare a giustificare la presunta inferiorità di razza degli africani. Dovrebbe essere questa la chiave di lettura che giustifica il fatto che, a partire dalla Cappella degli Scrovegni di Giotto, non sia così raro trovare una persona di colore tra coloro che deridono il Cristo, così come nell’Ecce homo (come accade in quello esposto, ricondotto all’ambito di Giovanni da Monte del Castello Sforzesco). Chiude il percorso una piccola parete dedicata a Thophilus Imani, artista contemporaneo, che tramite il suo canale Instagram ha da molti anni proposto dei dittici di opere antiche europee e fotografie di autori neri. Lo spazio che gli è dedicato è molto ristretto, e ci chiediamo se veramente valesse la pena di inserire anche queste opere in uno spazio già molto pieno di opere e di concetti, senza un adeguato approfondimento. Anche nel catalogo della mostra, non vengono intessute nell’apparato di studi, e restano un’appendice un po’ troppo svincolata. Ad ogni modo, tra i dipinti esposti ci ha infine colpito quello proveniente da Villa Necchi Campiglio, Paggio nero con tre cani, una marmotta e una scimmia. Tre cani vengono imboccati da un paggio, e un cartiglio recita: “Omai la Tromba vadane da parte/ non più musiche note non più gorge/ così scolari miei meglio si porge/ a chi ha buon petto come noi la parte”. È una sorta di rebus, in cui la marmotta è in piedi e la scimmia regge uno spartito. Secondo l’esegeta che ha redatto la scheda del catalogo, siamo davanti ad una traslazione semantica del “buon petto” dalla capacità di emettere suoni musicali a quella culinaria: quelli rappresentati dovrebbero essere degli animali da circo ormai “in pensione”, e quindi gli “scolari” coloro che osservano il dipinto: quando sarà ora, bisogna andare in pensione, e lasciare la proprio arte! E il vestito del paggio sembra confermare l’ambientazione circense. Comunque sia, con ciò abbiamo voluto sottolineare che si lasciano le due sale di questa piccola mostra con una serie di domande: chi sono le persone che abbiamo davanti in un quadro? Che ruolo hanno gli oggetti che sono posti nel quadro? Possiamo raccontarne le loro storie? Un buon storico dell’arte insegna ai propri scolari, sin dalle prime lezioni, proprio a porsi questo tipo di domande: è giusto che sia ribadito anche in questa sede.