Milano, Teatro alla Scala: “Sylvia”

Milano, Teatro alla Scala, Stagione lirica 2021/22
“SYLVIA”
Coreografia Manuel Legris da Louis Mérante e altri
Musiche di Léo Delibes
Sylvia MARTINA ARDUINO
Aminta NICOLA DEL FREO
Orione CHRISTIAN FAGETTI
Eros MATTIA SEMPERBONI
Diana MARIA CELESTE LOSA
Endimione GABRIELE CORRADO
Corpo di ballo e Orchestra del Teatro alla Scala di Milano
Direttore Kevin Rhodes
Scene e costumi Luisa Spinatelli
Luci Jacques Giovanangeli
Milano, 13 maggio 2022
Sin dalla sua nascita, Sylvia ha avuto una doppia sfortuna: aver avuto una musica troppo bella e raffinata, e fare riferimento al mondo del mito di matrice cinquecentesca, all’apparenza troppo lontano e distante. Chissà se, alla sua prima di Parigi, questo balletto fu considerato alla stregua di quell’arte pompier che tanto era disprezzata, a volte a torto, dai grandi innovatori dell’arte? A leggere Pierre Grassou di Balzac potrebbe anche essere, visto che pittori mediocri potevano benissimo compiacere i borghesi e ottenere i più alti riconoscimenti come la Legione d’Onore (ottenuta pure da Delibes). Ma stiamo forzando la mano, perché il valore della musica di Delibes è sempre stato affermato. Comunque sia, Sylvia, fu sempre ricordata per la sua musica, tanto che – episodio sempre citato in questi frangenti – Čajkovskij, dopo aver assistito allo spettacolo a Vienna, affermò che, se l’avesse ascoltata prima, non avrebbe composto Il lago dei cigni. Deo gratias!
Ma come sciogliere la questione? La musica ha veramente salvato questo balletto, che altrimenti sarebbe risultato noioso? Non possiamo qui essere troppo frettolosi, ma crediamo che l’origine di questa impressione, che leggiamo nei commenti passati su questo balletto, possa risiedere nell’opera letteraria su cui si appoggia, L’Aminta di Tasso. Come commenta il De Sanctis, “L’Aminta non è un dramma pastorale e neppure un dramma. Sotto nomi pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto lirico […] è un’azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da partecipi con le impressioni e le passioni in loro suscitate […] Il motivo è lirico […] anzi che di caratteri e di avvenimenti”. E questo sembra agganciarsi alle considerazioni negative di Galileo su Tasso: indugia in quadri statici, mentre è Ariosto che porta avanti con dinamismo la vicenda narrata. È così che si può spiegare in parte l’impressione di staticità che leggiamo in varie recensioni su Sylvia provenienti dal passato?Ma lasciamo insolute le questioni più accademiche, e concentriamoci sulla serata del 13 maggio a cui abbiamo assistito. La versione coreografica messa in scena è quella di Manuel Legris, da poco direttore del Corpo di Ballo della Scala, già rappresentata a fine 2019. La versione di Legris è stata vista più sobria e con l’intento di riallacciarsi alla tradizione francese con cui lui si è formato; e possiamo dire che si tratti di un arricchimento del repertorio di questo teatro, che non vedeva Sylvia per intero dal 1894. Ciononostante, ha anche delle aggiunte inedite interessanti, che accrescono il numero dei ruoli principali, oltre a meglio delineare l’essenza combattuta e scissa in due della protagonista, che rappresenta il tema portante del balletto. Infatti, la principale novità è la sua ouverture: da sempre suonata a scena vuota, ora viene danzata da Diana ed Endimione, con l’intento di introdurre con Diana la scissione interiore che vedremo poi in Sylvia. Nonostante tutti questi elementi positivi, però, non abbiamo potuto non notare le differenze rispetto alla versione di Ashton, che all’epoca della sua composizione voleva attualizzare la coreografia e darle nuova linfa: ad esempio, un po’ dispiace non vedere Eros nell’ “entrata del mago”, il quale, essendo camuffato fino ai piedi, possiamo dire che con questi “parli”.
Lasciando però da parte queste sottigliezze, l’impressione generale che abbiamo avuto è stata quella di uno spettacolo in crescendo, in cui la tecnica è stata di buon livello, ma è mancata un po’ di anima in Sylvia, la protagonista. L’inizio dello spettacolo è apparso un po’ incerto, soprattutto il primo atto, che si è riflettuto in una risposta un po’ pacata negli applausi del pubblico. Il momento in cui la scissione interna di Sylvia dovrebbe apparire evidente, funzionale a caratterizzarne il personaggio, vive nel momento topico del primo atto dove la Sylvia “amazzone” e la Sylvia più “sensibile all’amore e alle delizie” sono state musicate in maniera molto efficace da Delibes: da una musica che rimanda alle Valchirie di Wagner, si passa poi a un’altra di stile più romantico e delicato. Abbiamo visto poca differenza tra questi sentimenti contrastanti che dovrebbero emergere dall’interpretazione. Soprattutto la Sylvia che Tasso ci introduce come la “più cruda ninfa che mai seguisse il coro di Diana” è abbastanza mancata, tanto che nel balletto scocca la freccia che atterra esanime l’uomo innamorato di lei, per poi abbandonarlo al suo destino. Martina Arduino aveva il ruolo di Sylvia: è una ballerina brava, dal port de bras sempre sospeso e non rigido, ineccepibile tecnicamente, ma in lei abbiamo visto una Sylvia un po’ monocorde. Non sappiamo se ciò sia dovuto al voler tenere più sottotono i primi atti per fare sì che l’ultimo atto – il trionfo della tecnica e dei virtuosismi – potesse apparire come l’esplosione finale di uno spettacolo pirotecnico. Questa percezione ci è apparsa minore sugli altri personaggi, essendo anche maggiormente monolitici. In special modo Christian Fagetti è stato un convincente Orione, tanto che da qualche anno a questa parte sembra ormai essersi specializzato nei ruoli da cattivo. Nicola del Freo portava in scena il ruolo di Aminta, e ha danzato tutto in maniera pulita. Mattia Semperboni non ha brillato come in altri spettacoli, avendo avuto qualche piccola difficoltà nel passo a due con Sylvia, anche forse per gli ingombri dei costumi (il gonnellino molto lungo di lei, le ali di lui abbastanza grandi). Per quanto riguarda il passo a due dell’ouverture con Diana ed Endimione, infine, portato in scena da Gabriele Corrado e Maria Celeste Rosa, ci saremmo forse aspettati una maggior decisione nel gestire l’abbandono e la ripresa dell’arco, oggetto simbolico centrale nello sviluppo del balletto: l’essenza combattuta e scissa in due di Sylvia. Comunque sia, abbiamo assistito ad uno spettacolo bello e ricco. Nella sostanza, per un balletto come questo, pieno di miti e di leggende, il rischio di essere “un po’ pompier” – se vogliamo riprendere quanto già detto in apertura – è dietro l’angolo. Ciononostante, i vuoti e freddi accademismi applicati ad un mondo empireo, su cui molti in passato si sono accaniti, possono però aver vita. Degas ce lo insegna con il suo amore per Ingres; ma anche Bourguereau, la cui Famiglia indigente è tratta dai suoi studi sulle donne algerine, o il cui Cupido bagnato, per quanto inzuccherato possa apparire agli occhi di qualcuno, è senz’altro vivo: un contatto emotivo con il proprio pubblico lo cerca, e lo ottiene. Lo stesso crediamo possa accadere con Sylvia, che speriamo di poter continuare a vedere su queste scene in luce sempre maggiore. Foto Teatro alla Scala / Brescia – Amisano