Napoli, Teatro “Bellini”: “Il giardino dei ciliegi”

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2021/22
“IL GIARDINO DEI CILIEGI”
Opera teatrale di Anton Pavlovič Čechov
Spettacolo di Alessandro Serra
Duniaša ARIANNA ALOI
Jaša ANDREA BARTOLOMEO
Epichodov MASSIMILIANO DONATO
Carlotta CHIARA MICHELINI
Trofimov FELICE MONTERVINO
Gaiev PAOLO MUSIO
Simeonov-Piščik MASSIMILIANO POLI
Varja MIRIAM RUSSO
Anja PAOLA SENATORE
Lopachin MARCO SGROSSO
Ljubov’ VALENTINA SPERLÌ
Firs BRUNO STORI
Regia, Drammaturgia, Scene, Luci, Costumi Alessandro Serra
Collaborazione Luci Stefano Bardelli
Collaborazione Costumi Francesca Novati
Collaborazione Suoni Alessandro Saviozzi
Produzione Compagnia Orsini, Accademia Perduta Romagna Teatri, Teatro Stabile del Veneto, TPE Teatro Piemonte Europa in collaborazione con Compagnia Teatropersona, Triennale Teatro dell’Arte di Milano
Napoli, 24 maggio 2022Il giardino dei ciliegi, quello del drammaturgo russo Anton Čechov, approda al Bellini, ed assume la forma d’un affresco… sì, un affresco fatto di corpi. E, benché sia un’opera teatrale datata 1904, riesce a conservare tutta la sua freschezza. Freschezza che, in quest’allestimento – curato nella regia, nelle scene, nelle luci e nei costumi da Alessandro Serra –, assume una potenza formale, estetica – che, però, riesce a neutralizzare, e a soppiantare, quella politica e quella storica. Corpi che si smorzano, accasciandosi o afflosciandosi a terra, come candele; corpi che, all’improvviso, s’addormentano come cavalli; corpi che parlano a vuoto… o, meglio, al vuoto, parafrasando Deleuze… quel vuoto che li pervade, dall’interno.
Quei corpi… prigionieri dell’indolenza, dell’apatia – e ciò accade perché stanno mutando: una famiglia, appartenente all’aristocrazia russa novecentesca, sta borghesizzandosi, sta impoverendosi – sta scomparendo, senza opporre resistenza a tutto ciò; sta accettando, passivamente, d’essere sostituita da nuovi padroni. I Ranevskaja, gruppo famigliare in decadenza, svende il giardino per pochi rubli. Lì, dove fiorivano ciliegi… adesso, vengono fabbricati dei villini. Questa esemplificazione, dell’opera cecoviana, potrebbe essere definita come teatro stupendamente fiabesco. Ovvero: il tema storico dell’ “emancipazione dei servi”, il tema della conseguente inutilità dell’aristocrazia… son cose che, in questo caso, perdono ogni significato politico; anzi: il regista osserva tutto ciò con beata spensieratezza di bambino. E, con altrettanta spensieratezza infantile, la famiglia accetta tutto ciò, rassegnandosi. Potremmo dire, però, che i Ranevskaja ridono per non piangere. E, infatti, la lacrima, quando scende, è sempre furtiva… e, alla lacrima, succede l’isteria d’una risatina contratta e nervosa – preceduta, sistematicamente, da una battutina fatta a denti stretti. E tutto ciò, per forza di cose, accade nel vuoto: in uno spazio scenicamente vuoto, occupato soltanto da una dozzina di sedie, in Stile Liberty e ferro battuto. Sedie che – quando è tempo per il gruppo famigliare d’abbandonare la tenuta – vengono affastellate in un poetico montarozzo. Vuoto degli spazi, dunque, che fa l’eco alla passività delle figure del teatro cecoviano, che è causa-conseguenza di quel processo di degradazione e decadenza. Aristocratici squattrinati, tutti così infantilmente inetti.
Tutto ciò, però, va a comporre soltanto la cornice storica entro cui, con estremo candore, accadono due cose: una sistematica e dannosa repressione degli istinti e dei sentimenti, e l’inconscia sostituzione dei sentimenti soffocati con isteriche risatine e con incisi scenici, entro cui avvengono giochetti vari: personaggi, anzi, figure che si rincorrono, che danzano, che cantano come presi da una strana febbre, da uno strano malanno, come presi da una nevrosi ossessiva – costituita, appunto, da un’ossessiva reiterazione di gesti e movimenti, tutti estremizzati o fatti controvoglia. Attori che, dunque, stroncano ed interrompono gesti che stanno per compiere – posticipando, differendo movimenti ed azioni. Ciò frantuma anche il linguaggio, e lo fa così profondamente da mutarne la struttura ritmica, fonetica e sintattica: frasi spezzate da brevi risate, gemiti, singhiozzi, spasmi, borbottamenti, brusii, mugugni, schiamazzi, grida. Tutto ciò, però, compare a intervalli irregolari, in modo inaspettato. L’effetto comico è irresistibile, frutto dell’incontro-scontro tra dramma e risata: corsette, risate e giravolte… miste, però, ad estrema noia borghese e patologica apatia. Però, sulla scena, tutto ciò lo ritroviamo avvolto in un linguaggio perfettamente accademico, scientemente affettato, “manierista”, con variazioni d’intonazione così cangianti da soppiantare il suono originario della parola con un suono che è ancora più sonoro, parafrasando Pasolini: parole allargate, dilatate, accartocciate – mutate in niente altro che suono, soltanto suono, suono puro. Ecco di cosa si compone la drammaturgia, riscritta dal regista. È una partitura, perfetta nelle sue variegate sonorità, nei suoi potenti contrappunti sintattici e in quegli incisi irrazionali di danze collettive e canti corali. Ottimi, dunque, tutti gli attori – avvolti, peraltro, in raffinati costumi, d’inizio Novecento: Arianna Aloi (Duniaša), Andrea Bartolomeo (Jaša), Massimiliano Donato (Epichodov), Chiara Michelini (Carlotta), Felice Montervino (Trofimov), Paolo Musio (Gaiev), Massimiliano Poli (Simeonov-Piščik), Miriam Russo (Varja), Paola Senatore (Anja), Marco Sgrosso (Lopachin), Valentina Sperlì (Ljubov’), Bruno Stori (Firs). Al netto, però, dell’apatia che stringe, come in una pinza arrugginita, i personaggi, il teatro cecoviano, dopotutto – si sa –, è costruito sopra una tenera vitalità – intrisa, però, d’un carattere apparentemente pessimistico. E, in questo caso, l’amore per la vita, come e dove si manifesta? Dove risiede quella tenera vitalità, che Čechov camuffa (per estremo pudore, forse) sotto il drappo grigiastro del nichilismo? Risiede lì, nelle ombre dei personaggi; ombre nitide, nette, scurissime – proiettate, sul fondo, da luci tutte soffuse e poeticamente giallastre. Ombre che hanno commosso un pubblico tutto attento e, sorprendentemente, numeroso. Repliche fino a domenica 29 maggio.