84º Festival del Maggio Musicale Fiorentino: “Acis et Galatée” di Lully

Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Sala Zubin Mehta
“ACIS ET GALATÉE”
Pastorale héroïque en trois actes et un prologue, libretto Jean Galbert de Campistron (da Le Metamorfosi di Ovidio)
Musca di Giovanni Battista Lulli (Jean-Baptiste Lully)
Edizione critica a cura di Bernardo Tucci
Prima rappresentazione in Italia
Acis  JEAN-FRANÇOIS LOMBARD
Galatée ELENA HARSÁNYI
Diane / Deuxième Naïade / Scylla  VALERIA LA GROTTA
Aminte /Première Naïade  FRANCESCA LOMBARDI MAZZULLI
Comus / Tircis MARKUS VAN ARSDALE
Apollon / Le Prêtre de Junon /Télème SEBASTIAN MONTI
Poliphème LUIGI DE DONATO
Neptune GUIDO LOCONSOLO
Une Dryade SILVIA SPESSOT
Une Sylvain DAVIDE PIVA
Danzatori Caroline Ducrest, Robert Le Nuz, Alberto Arcos
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro concertatore e direttore Federico Maria Sardelli
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Regia Benjamin Lazar
Co-regia Elizabeth Calleo
Scene Adelin Caron
Costumi Alain Blanchot
Luci Christophe Naillet
Coreografia (e danzatrice) Gurdun Skamletz
Nuovo allestimento
Firenze, 4 luglio 2022
Dopo la Scala di Milano, anche il Maggio Musicale Fiorentino si apre al melodramma barocco e lo fa allestendo Acis et Galatée, un’opera di Jean-Baptiste Lully, celebre e potentissimo musicista del Re Sole, che prima di essere naturalizzato francese era Giovan Battista Lulli, un eclettico ragazzo nato nei pressi di Firenze il 28 novembre 1632, desideroso di mettere a frutto il suo talento di danzatore, cantante e compositore. Fu Lulli/Lully a creare ex novo nel 1673 il genere più consono alla politica culturale di Luigi XIV: la Tragédie lyrique ispirata sul piano del testo alla tragedia di Racine e sul piano della musica ai ballet de cour ma anche all’operismo di Cavalli. Acis et Galatée è l’ultima opera eseguita vivente l’autore e s’inquadra nel sottogenere della pastorale héroïque, di durata più contenuta e dalla trama più scarna: l’amore del pastore Aci per la ninfa Galatea è contrastato dal ciclope Polifemo che uccide il rivale; ma Nettuno resuscita il giovane mutandolo in fiume e unendolo per sempre all’amata. Schermaglie amorose e motti corali inneggianti alle gioie d’Amore intervallano una vicenda che nei rimandi al mito ovidiano conteneva una forza allegorica adeguata alla celebrazione del primogenito di Luigi XIV. Rappresentato per la prima volta il 6 settembre 1686 al Castello d’Anet, Acis et Galatée approdò dopo undici giorni all’Académie Royale de Musique. L’aulicità di un’opera di fine Seicento si lega a una concezione temporale tipica della festa di palazzo che difficilmente può essere ricreata oggi in un teatro, specie in spazi modernissimi come la Sala Zubin Metha del Maggio. L’alternativa scontata è quella di trasfigurarne i connotati sul piano visivo, mantenendo i parametri stilistici a livello canoro, strumentale e coreutico. Da qui deriva l’encomiabile sforzo dell’Orchestra del Maggio Musicale che, sotto la guida sapiente di Federico Maria Sardelli, da decenni esperto conoscitore della musica lulliana, ha imbracciato per la prima volta strumenti antichi mettendosi alla prova con le modalità esecutive della Parigi di fine Seicento. In questo primo avvicinamento alle problematiche della prassi storicamente informata la compagine orchestrale al suo interno era coadiuvata da maestri acclarati della musica barocca come il primo violino Federico Guglielmo, Bettina Hoffmann (alla viola da gamba), Andrea Perugi e Simone Ori (ai clavicembali), Maurizio Piantelli, Gianluca Geremia e Simone Vallerotonda (alle tiorbe). Sardelli, da par suo, ha diretto con la mazza in uso ai tempi di Lully che è così entrata a far parte a buon diritto del gruppo di percussioni affidato a Lorenzo D’Attoma. I rapidi stacchi di tempo negli allegri e la forza ritmica (due cifre distintive dell’arte direttoriale di Sardelli) hanno reso ancor più incisiva la splendida partitura dell’ultimo Lully senza però trascurarne le tante nuances timbriche. L’ottimo coro del Maggio guidato dall’eccellente Lorenzo Fratini era in buca con l’orchestra secondo una scelta oramai adottata da molti teatri per ragioni d’ordine produttivo mirate al risparmio. Del resto, anche la regia di Benjamin Lazar, l’impianto scenico di Adelin Caron e i costumi di Alain Blanchot hanno puntato a una scarna essenzialità, in netto contrasto con l’opulenza originaria di quest’opera. Pochi oggetti di scena; il resto lo fa il gesto dei dieci cantanti e dei quattro danzatori. A riempire lo spazio scenico provvede l’enorme fondale alberato e gli alti fusti degli alberi verso il proscenio, atti a creare un sistema di quinte allusivo all’ambientazione boscosa e fluviale del mito. Lazar mantiene la cura maniacale per la gestualità e la prossemica storicamente informata ma la unisce alla ricerca di un dinamismo volutamente “informale” che si preoccupa di orientare i movimenti scenici verso una forma di realismo e di scioltezza espressiva. Da questa “sprezzatura” derivano sia gli intenzionali scoordinamenti tra i quattro danzatori (funzionali a rendere l’ebbrezza che regna tra i personaggi del prologo), sia la disomogeneità nel taglio sartoriale dei costumi di Blanchot che tuttavia si armonizzavano perfettamente sul piano cromatico nel loro insieme. La distinzione tra umani e semidei era rimarcata da abiti dimessi per i primi e ampiamente drappeggiati per i secondi. Stupendo il costume di Polifemo, vagamente ispirato al mondo heavy metal, con guanti borchiati e rossi a simboleggiare le mani tinte di sangue del violento ciclope. Il risultato finale di regia-scene-costumi assegna alla pastorale di Lully una freschezza e un alto tasso di informalità che a ben vedere rispecchia quello caratterizzante il genere della pastorale héroïque dal cui tronco si svilupperanno alcuni elementi dell’opéra-comique settecentesco. Ottimo nel suo complesso il cast che trovava un punto di riferimento nella decennale dimestichezza con la musica barocca di Jean-François Lombard, squisito haute-contre (il tenore leggero alla francese che Oltralpe faceva le veci dei castrati nostrani) i cui punti di forza sono la morbidezza di emissione, la ricchezza di sfumature timbriche e la ricerca d’un “colore” vocale adeguato al personaggio: il suo Acis aveva la giusta malinconia e raggiungeva vette struggenti nel momento della morte e del finale ricongiungimento con la ninfa amata. Raffinatissima la Galatée di Elena Harsányi che riesce a mantenere la giusta tensione nel personaggio dominando un fraseggio di particolare morbidezza (assicurato anche dalla sua tecnica che tende a sfumare la coda di ogni segmento canoro). Luigi De Donato ha dato vita a un Poliphème perfetto, grottesco e violento, grazie a una potenza vocale adeguata al personaggio; bello il colore anche nella zona estrema dei gravi. Valeria La Grotta sicura nel fraseggio e stilisticamente adeguata ha interpretato con grande verve attoriale le tre parti di Diane, della pastorella Scylla e di una Naïade. Tre personaggi (Abbondance, Aminte e una Naïade), spettavano anche a Francesca Lombardi Mazzulli dal timbro squillante e sicura nella recitazione, come pure a Sebastian Monti (Apollon, Le Prêtre de Junon, Télème) a suo agio in questo repertorio anche se si è dovuto cimentare in parti sovracute insidiose che hanno creato difficoltà. Guido Loconsolo, più eclettico nella sua carriera, ha dato voce a un Neptune stentoreo e scenicamente molto efficace. Molto buona anche la prova di Markus Van Ardale nei panni di Comus e Tircis e delle due parti di fianco, la dryade di Silvia Spessot e il sylvain di Davide Piva.  Prossime repliche: 9 e 11 luglio. Foto Michele Monasta