Giuseppe Verdi (1813-1901): La Traviata (1853)

Opera in tre atti su Libretto di Francesco Maria Piave. Lisette Oropesa (Violetta Valery), René Barbera (Alfredo Germont), Lester Lynch (Giorgio Germont), Ilseyar Khayrullova (Flora Bervoix), Menna Cazel (Annina), Francesco Pittari (Gastone), Allen Boxer (Barone Douphol), Biagio Pizzuti (Marchese D’Obigny), Alexander Köpeczy (Dottor Grenvil), Tobias Schrader (Giuseppe), Reinhold Schreyer-Morlock (Un servo di Flora), Alexander Födisch (Un commissionario) Sächsischer Staatsopernchor Dresden, Dresdner Philharmonie. Daniel Oren (Direttore)  André Kellinghaus (Maestro del Coro). Registrazione:  marzo 2021,  Kulturpalast di Dresda. 2 Cd Pentatone PTC 5186956

Di incidere una Traviata ce n’è sempre bisogno, anche quando non ce n’è bisogno. Aver inciso qualcosa è oggi una sorta di titolo nobiliare: non ci si guadagna niente, ma dà ancora una certa aria di prestigio. In ultimo, condizione decisiva, sotto le restrizioni della pandemia lo studio di registrazione restava l’unico praticabile: così nasce questa Traviata. Pregevole, però. 
Al centro dell’iniziativa discografica sta Lisette Oropesa, che se la merita tutta. Però più che la Traviata con l’Oropesa questo sembra un solo album dell’Oropesa con i suoi Sempre libera e Addio del passato, lussuosamente incorniciati dal resto dell’opera. Che poi, per carità, si ascolta sempre volentieri anche così, però, come dire?, è strano. Anzi è un peccato. È un peccato perché la Oropesa è magnifica: non una generica ottima Traviata, ma una ottima Traviata tutta sua, di gusto belcantista, magari volutamente contenuta negli accenti più espressivi (niente èhètttttharrrrdddi! con singhiozzo incorporato, e non dispiace a nessuno), ma che dispiega la bellezza del suo timbro nell’elegante legato di frasi come Ah perché venni incauta o dei suoi trilli e agilità in altre come Ah se ciò è ver fuggitemi.


E quindi meritava di avere intorno tutto un apparato stilisticamente coerente, insomma si poteva andare più decisi nella direzione di una Traviata donizettianeggiante, per dir così. 
Quindi era forse meglio non scegliere  un Maestro di riferimento per il repertorio verista e tardo romantico come Daniel Oren che ha fra i suoi titoli cult Adriana e Manon: meglio un Maestro che arriva a Verdi “da dietro” e non da davanti. Però Oren ottiene dall’ottima Filarmonica di Dresda il suo lucido suono di commovente bellezza: il suo preludio al terzo atto è di tenera potenza evocativa. Si doveva accostare alla Diva due semiDivi, due che cantino Verdi facendo storcere il naso ai cosiddetti verdiani che pretendono, nell’ordine: volume enorme di voce, muscolarità aggressiva dell’emissione, potenza espressiva di gusto verista, e una certa punta di cattiveria, di malignità, quale che sia il personaggio. E sono quasi del tutto insensibili alla bellezza del timbro. Ecco, due che siano tutto l’opposto, quindi perfetti per tracciare insieme alla Oropesa i lineamenti di un Verdi anti-verdiani. Invece il baritono era Lester Lynch, un timbro gradevole e morbido ma un’emissione mal sicura e una dizione non impeccabile. Anche la dizione di René Barbera ha qualche crepa, che diventa difficilmente perdonabile in studio, mentre l’emissione è salda ma un tantinello nasale. In generale, soprattuto dinnanzi alla Oropesa, quello dei due Germont risulta un canto meno sfumato e più piatto. Già dal Brindisi salta all’orecchio la differenza fra “Barbera e Champagne”. Alti e bassi per i comprimari: cose che in studio non dovrebbero succedere. Perfetto invece il coro, che però ha il difetto di essere un coro vero, e non quell’accozzaglia di individui che cantano la stessa cosa ma che partecipano all’azione ciascuno con la propria personalità che ci piacerebbe sentire qui. Nel complesso un po’ claudicante questa Traviata, ma pur sempre da ascoltare, se non altro per la starring Oropesa.