Napoli, Teatro di San Carlo – Stagione lirica 2022/23
Inizio celebrazioni Centenario Maria Callas
Orchestra del Teatro San Carlo di Napoli
Direttore Jader Bignamini
Soprano Anna Netrebko
In programma pagine d’opera di Gaetano Donizetti, Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Camille Saint-Saëns, Charles Gounod, Michail Glinka, Pëtr Ilʼič Čajkovskij, Richard Wagner.
Napoli, 8 ottobre 2022
“Era quasi una persona immortale incarnata nell’arte lirica, è stata per il canto quello che Toscanini è stato per la direzione d’orchestra”. Queste le parole di Riccardo Muti in ricordo di una leggenda del canto lirico, nata alla fine del 1923 col nome di Maria Anna Cecilia Sofia Kalogheropoulou, alias Maria Callas. Da allora il panorama lirico internazionale è indubbiamente mutato, ma la sua aura ispiratrice era davvero intramontabile e, guidando tuttora le letture di diverse pagine d’opera, riecheggia nelle interpretazioni dei più talentuosi soprano odierni. Così, a distanza di quasi 100 anni dalla nascita, i principali teatri italiani si trovano nella delicata posizione di dover ideare un consono ciclo di eventi in onore della diva del passato. Batte il tempo su tutti il Teatro di San Carlo e lo fa affidandosi al carisma di Anna Netrebko, destinata poi a tornare tra un anno per la chiusura ufficiale del programma celebrativo. Il celebre soprano russo è ancora in grado di giocare la rievocazione delle nozze della Bolena sul filo delle nuance vocali, trasportando l’audience a quelle recite dell’ottobre del 2011 al Metropolitan Opera, tanto perdura la finezza della linea di canto che innesta l’alienazione della mente, nitida nell’emissione quanto soffusa nelle oscillazioni cromatiche, rispondendo ai più melanconici accenti drammaturgici con l’appoggio di un’esperta gestione dei legati. Ed è proprio quando il cantabile si accinge alla conclusione che avviene qualcosa di singolare: una cadenza parzialmente disordinata conduce ad un Do sovracuto calante, ma che la Netrebko sterza progressivamente verso la sua corretta intonazione, schiudendolo per la sala con notevole luminosità timbrica e siglandolo con un pronto crescendo conclusivo. Che dire, una potenziale defaillance che si chiude con maestria, mettendo in luce una “diva umana” e tutta l’umanità della diva. Chiude l’aria una cabaletta di autentico furore ritmico, dove l’appressarsi della forca trasluce dalle ardue variazioni a sbalzo della ripresa, condotte con destrezza e tra le quali non manca un’ultima, velata, introspezione in pianissimo. Più controversa, invece, l’esecuzione della scena di Abigaille, che malgrado le peculiari messe di voce del recitativo e l’impavida solidità dei doppi salti d’ottava, non impressiona ancora come l’analoga sortita della “Lady” in “Macbeth”. Certo, rispetto a quella prima esecuzione a Firenze (27/06/2021), in cui la stessa Netrebko annunciò che si trattasse del suo primo approccio al ruolo, il colore delle fioriture vocali si è fatto morbidissimo, quasi flautato, e la voce sussurra soffrendo i ricordi espressi da un fraseggio profondamente riflessivo, ma proprio qui il soprano non sembra trovarsi a suo agio con la linea di canto, tirando ancora qualche fiato di troppo. Ad ogni modo, il plauso del pubblico si scioglie senza riserve, a coronamento di una chiusa scandita da contrasti dinamici, scioltezza di trilli e penetranti puntature.
Veniamo adesso all’ambivalente orchestrazione di Jader Bignamini, che già al momento delle prime due cabalette sembrava decisamente incalzato dal soprano e poco sensibile alle sue scelte interpretative. La direzione migliora passando a una più convincente esposizione dei temi di “Nabucco” e contando su un veemente contributo degli archi, ma non si riscatta del tutto, poiché anche la sua bacchetta incorre nel comune errore di limitare il crescendo finale al forte, quando Verdi in partitura segna: “ff” (fortissimo). La situazione è ancora più compromettente su “Un bel dì vedremo” dove, al contrario di quanto accade di solito, è la direzione a stemperare la resa complessiva, affetta da una talmente evidente asincronia con le intenzioni drammatiche della cantante da porre l’ascoltatore davanti a una scelta. A coloro che avranno optato per il soprano non sarà sicuramente sfuggito il diamantino correre per la sala delle frasi di attacco del tema, intervallate dal lenticolare fraseggio della sezione centrale, che troppo spesso in scena rischia di cadere nell’oblio, tanto il soprano riesce ad immedesimarsi nella credenza di una falsa profezia, prima di dominare l’orchestra col guizzo dello slancio finale. Fortuna vuole che gli inserti di maggiore indipendenza diano al direttore il margine per qualche momento di più marcato protagonismo. Intriganti, in tal senso, gli strazianti cromatismi che introducono all’atmosfera desolata dell’intermezzo di “Manon Lescaut”, dove l’intervento della viola solista e dell’arpa trasfigurano un’aura mistica, che sfocia delicatamente verso le tenui reminiscenze tematiche con effetti d’ispirazione quasi wagneriana. Nessuna sorpresa, quindi, nel rintracciare sul preludio del “Tristan und Isolde” la scansione di dissolvenze necessarie a trasmettere quel gioco inconcludente di “sospiri ansiosi, speranze e sgomenti, lamenti e desideri, piacere e tormento’’ di cui scriveva Wagner. Ma il pernio dell’orchestrazione è senz’altro l’ouverture di Glinka, che sancisce il ritorno a un’agogica fluttuante, mossa dagli accenti di danza, colore strumentale e un senso di assoluta compattezza delle parti nel concorrere al vorticoso ritmo di ciò che sarà un paradigma per la successiva musica nazionale russa.Se da una parte resta il dubbio di un concerto preparato un po’ a compartimenti e che avrebbe probabilmente necessitato di qualche ora di prova in più per affinarsi, l’“aria del veleno” di Juliette brilla di luce propria. Sul dramma di Gounod, infatti, la Netrebko seduce il pubblico con tutta la caratura della sua maturità lirica, affrontando l’abisso che la separa da Roméo con frasi dotate di un’avvolgente proiezione, la cui timbratura non affligge la pregevole limpidezza dei suoni, pronti ad aprirsi verso ombreggiature dinamiche funzionali all’intento, senza con ciò intaccare l’intuito ritmico delle subitanee ascese. Del resto, la liaison francese aveva già giovato al soprano nel pezzo di Saint-Saëns, finalmente cantato senza l’appoggio dello sparito e in cui non si riscontrava più la lieve opacità delle note più gravi dell’inizio del concerto, ormai saldate con omogeneità al registro centrale, con le quali l’interprete ammanta di pregnante drammaticità questa pagina del repertorio russo. Giusto in tempo per gli applausi finali, soprano e direttore trovano il loro punto d’incontro sul “Liebestod” di Wagner, il cui sviluppo di canto in progressioni e per climax dipana flussi vocali ben sostenuti e fusi con i flutti dell’orchestra, quasi ad estenderne naturalmente i suoni.
A fine serata, l’accoglienza del Teatro di San Carlo è strepitosa: applausi, richieste di bis, ovazioni, ma soprattutto vere e proprie cascate di fiori sfusi dai palchi, che proprio non è possibile cavarsela con meno di due bis. Ed ecco che quando ci saremmo potuti aspettare proposte dal repertorio operistico italiano, la Netrebko, ancora letteralmente carica di mazzi floreali, recupera dalla sua giovinezza “Il bacio” di Arditi, concludendo con “Heia, in den Bergen” (“Die Csárdásfürstin”) di Kálmán. Ascoltandoli e osservando il catalizzante effetto sul pubblico non si può fare a meno di constatare come sulle rapide vocalizzazioni il soprano si dimostri ancora estremamente duttile, squillante e disinvolto e come nondimeno emerga la sua spiccata tempra attoriale. Non è, inoltre, raro che la cantante si congedi da recital e concerti con passi di agilità o, comunque, più lirici che lirico-drammatici. Dunque una domanda sorge spontanea: il soprano è spinto verso ruoli più prettamente drammatici per la limitatezza di opzioni tra le attuali schiere di voci sopranili o per sua effettiva attitudine? Al futuro l’ardua sentenza.