Roma Teatro Argentina, stagione 2022/2023
“PUPO DI ZUCCHERO”
Testo, regia e costumi Emma Dante
Con: Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout, Sandro Maria Campagna, Martina Caracappa, Federica Greco, Giuseppe Lino, Carmine Maringola, Valter Sarzi Sartori, Maria Sgro, Stephanie Taillandier, Nancy Trabona
Sculture Cesare Inzerillo
Luci Cristian Zucaro
Roma, 20 ottobre 2022
È difficile, oggi, trovare una così fitta schiera di produttori pronti a sostenere uno spettacolo teatrale se non si è Emma Dante. Sulla locandina si legge: Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Scène National Châteauvallon-Liberté /ExtraPôle Provence-Alpes-Côte d’Azur / Teatro Biondo di Palermo / La Criée Théâtre National deMarseille / Festival d’Avignon / Anthéa Antipolis Théâtre d’Antibes / Carnezzeria. Rincuora vedere come tante organizzazioni culturali siano state propense a sostenere Pupo di zucchero, il nuovo lavoro dell’artista siciliana, il cui nome è imprescindibilmente legato, al tema della morte. È l’ispirazione principale che accosta inevitabilmente la Dante all’antesignano Tadeusk Kantor. Così come, altra fonte irriunciabile delle sue pièce è Giambattista Basile, stavolta, nello specifico, il terzo racconto della quinta giornata de’ Lo cunto de’ li cunti, l’opera nota anche come lo Pentamerone, un insieme di cinquanta racconti. E tale è anche questo spettacolo, un assemblaggio di racconti, nato da un insieme di fonti ispiratrici (ai già citati Kantor e Basile si aggiunge anche Rainer Maria Rilke, citato anche in sinossi) e di tante storie che costituiscono i ricordi di un uomo solitario e nostalgico che, tra le mura della sua casa, rievoca la sua vita passata. Carmine Maringola, il protagonista, nella vita marito della regista, che con estrema fatica si è sforzato di dare vita ad un vecchio poco credibile, considerata la prestanza fisica dello stesso attore. È quel vecchio che, animato dai ricordi, raduna intorno a sé tutti si suoi familiari defunti che, come per mezzo di un incantesimo fatto di suoni, gesti, strumenti musicali, simboli e fumi creati dalla farina, altro simbolo legato alla morte, prendono “vita”.
La morte, quindi, o meglio i morti di una famiglia, al centro del racconto che si dipana, anche stavolta, com’è stile ormai di Emma Dante, sui fondali neri del palcoscenico da cui emergono, per mezzo di un disegno luci molto ben curato da Cristian Zucaro, i singoli personaggi. Essi si muovono con movimenti perfetti, coreografati come in una danza, come pure è stile di Emma Dante, tutti sincronizzatissimi, evocati per prendere parte ad un rito.
I personaggi sono gli stessi del più noto spettacolo che ha fatto conoscere l’artista siciliana al pubblico, Le sorelle Macaluso, da cui sembra non riuscire staccarsi: il padre, intrepretato da Giuseppe Lino, sempre giovane e legato al gesto di pettinarsi i capelli. La madre, Stephanie Taillandier, interprete del medesimo personaggio nel già citato spettacolo, stavolta sdentata, nella gestualità meno giovane ma che, come per magia, ad un certo punto, si trasforma in una soubrette, con tanto di paillettes, e comincia inspiegabilmente a ballare, accompagnata da uno scintillante corpo di ballo. La madre parla in francese e comunica in maniera speciale con un figlio adottivo di colore, Pasqualino, interpretato da Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout che indossa vistosi calzini rossi; le tre sorelle, Nancy Trabona (Rosa), Maria Sgro (Viola) e Federica Greco (Primula), brave danzatrici e cantanti, gli zii violenti, Martina Caracappa (zia Rita) e Valter Sarzi Sartori (zio Antonio) e un “parente acquisito”, Pedro, interpretato da Sandro Maria Campagna, di lingua spagnola. Una famiglia numerosa, spesso unita come in un’istantanea, un crogiolo di lingue che si intrecciano e comunicano senza difficoltà, un groviglio di suoni, tra cui prevalgono quelli di una lingua napoletana spuria, improbabile, nata dalla fusione di un fraseggio moderno e di quello arcaico di Basile. Lunghi silenzi, scene lente, sollevate in alcuni momenti, dai leggiadri movimenti delle danzatrici, contrapposti dalle grintose coreografie maschili e accompagnati da melodiche polifonie particolarmente suggestive. In tutto questo, non poteva mancare almeno un seno scoperto, altra caratteristica distintiva della regista dei nudi. Tutto sembra ripetersi: costumi, i lumini accesi, il rito finale in cui il protagonista banalmente muore di fronte ai corpi mummificati dei parenti defunti, resi da fantocci snodabili realizzati da Cesare Inzerillo. Lo schema teatrale proposto si ripropone come una sorta di “terra sicura” in cui la regista si muove ormai da anni raccogliendo plausi e sostegni. Si apprezza sicuramente il senso del teatro, il legame alla tradizione che va sempre rievocato e mai rinnegato. In un Paese come il nostro, sempre aperto alle tendenze provenienti da oltre confine, si è soliti perdere il legame col passato, il contatto con le radici. E questo spettacolo vuole proprio ricordare come il culto dei morti fosse così presente e vivo nella nostra terra, prima che venisse prepotentemente soppiantato da una festa straniera, oggi celebratissima: Halloween. Un rito, il culto dei morti, ancora vivo nelle regioni del sud, che diventa il motore della messa in scena che ruota intorno alla realizzazione del pupo di zucchero, tipico dolce di questo periodo dell’anno che, come tutte le pietanze delle feste, viene realizzato con la partecipazione di tutta la famiglia e consumato insieme, in una comunione che definisce un legame con chi non c’è più. Una congiunzione ideale di corpo e anima, un rito che simboleggia l’alleanza con chi non c’è più e vive nel ricordo di chi è vivo. La notte del 2 novembre quelle anime tornano sulla terra e si manifestano, prendo parte al banchetto, alla festa in onore della morte che è essa stessa parte della vita. Circa 60′ di spettacolo, dai ritmi alterni, che divide il pubblico in sala: c’è chi applaude convinto e chi mostra un perplesso distacco. Repliche fino al 30 ottobre. Foto Ivan Nocera