Venezia, Teatro Malibran:”Apollo et Hyacinthus”

Venezia, Teatro Malibran, Lirica e balletto, Stagione 2021-2022
APOLLO ET HYACINTHUS”
Intermezzo in tre atti. Libretto di Rufinus Widl
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Oebalus, Lacedaemoniorum rex KRYSTIAN ADAM
Melia, Oebali filia BARBARA MASSARO
Hyacinthus, Oebali filius KANGMIN JUSTIN KIM
Apollo, ab Oebalo hospitio exceptus RAFFAELE PE
Zephyrus, Hyacinthi intimus DANILO PASTORE
Duo sacrificuli Apollinis ENZO BORGHETTI, EMANUELE PEDRINI
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Andrea Marchiol
Regia Cecilia Ligorio
Scene, costumi, light design Accademia di Belle Arti di Venezia
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in collaborazione con Accademia di Belle Arti di Venezia
Venezia, 15 ottobre 2022
Frutto del genio precocissimo di un Mozart appena undicenne, prima prova teatrale del Salisburghese, Apollo et Hyacinthus nasce su commissione da parte dell’Università dei Benedettini di Salisburgo che, nel 1767, gli richiede delle musiche da eseguire negli intervalli di un dramma in cinque atti, Clementia Croesi, scritto in latino da padre Rufinus Widl. Non un’opera vera e propria, dunque, ma “intermezzi” da inserire nel corso della rappresentazione del dramma, come si usava allora. Se la materia di Clementia Croesi è tratta dalle Storie di Erodoto – dove si narra la vicenda del re Creso, che perdona l’involontario uccisore, durante una battuta di caccia, del figlio Atys –, per quello che diventerà Apollo et Hyacinthus padre Rufinus attinge alle Metamorfosi di Ovidio, laddove si racconta il dolore di Apollo per aver involontariamente causato la morte dell’amato Giacinto, durante una gara di lancio del disco, e la conseguente trasformazione del giovane nel fiore purpureo. L’evidente omoerotismo del brano ovidiano passa, però, in secondo piano nella versione del frate benedettino, dove Giacinto viene ucciso da un amico – Zefiro – per gelosia nei confronti di Apollo, accusando poi quest’ultimo del delitto; ma alla fine la verità trionfa e il dio sposa Melia, sorella di Giacinto, dopo aver trasformato il vero colpevole in vento.
Questo l’argomento del libretto, in lingua latina, ampiamente basato su un repertorio mitologico, che Mozart, ancora bambino, si trova di fronte, riuscendo – lo attesta la straordinarietà della musica, che inserisce elementi di novità in forme del passato – a produrre la partitura da solo, senza dover scomodare il padre Leopold. Probabilmente è nel marzo 1767 che Mozart intraprende il lavoro, che il 13 maggio va in scena nell’aula magna dell’Ateneo con enorme successo con un cast formato da soli interpreti maschi. L’opera presenta una serie di arie solistiche, una per ciascuno dei cinque personaggi – affidati all’epoca alle voci bianche di quattro studenti e a quella adulta di un ventiduenne docente –, due duetti, un terzetto e un coro, collegati tra loro da recitativi secchi e da un recitativo accompagnato all’inizio del terzo atto.
Una storia che parla di ragazzi, concepita per i giovani studenti dell’Università di Salisburgo da un bambino-prodigio, non poteva trovare oggi una realizzazione più corrispondente a quella originale, se non grazie alla collaborazione degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, che vanta ormai una tradizione nella pittura scenica e ha da tempo intrapreso un proficuo sodalizio creativo con il Teatro La Fenice. Un’opportunità che la regista Cecilia Ligorio ha inteso mettere a frutto, ideando uno spettacolo che, facendo leva sulla vitalità di questi ragazzi, porta in primo piano la teatralità del mito, per sostenere la pur straordinaria musica di Mozart-bambino: prodigiosa, sì, ma anche comprensibilmente non ancora matura rispetto ad una dimensione squisitamente drammaturgica. I giovani, dunque, sotto la guida della regista hanno “sovrascritto” scenicamente il racconto mitico di Mozart/Widl, contribuendo a realizzare un allestimento, volto ad esprimere la loro personale versione del coup de théâtre barocco: si tratta di studenti che, come quelli di Salisburgo al tempo di Mozart, sono parte fondamentale di questo progetto, non solo nella fase ideativa, ma anche agendo sulla scena, dove – ad esempio – invocano e riconoscono l’Apollo esiliato, diventano la metafora della sua forza, costituiscono il ponte tra noi e questa divinità così centrale in tutta la cultura classica, tra noi e i personaggi di Mozart.
Particolare rilievo, in questo allestimento, assume il gioco metalinguistico e letterario giocato, in particolare, sulla parola “Metamorphosis”. In corrispondenza dei vari numeri musicali si creano, attraverso la combinazione e ricombinazione di sequenze di cubi luminosi, altrettante parole-chiave, a caratterizzare ogni situazione emotiva: dall’iniziale e finale “Metamorphosis”, a “Timor”, “Amor”, “Eros”, “Mors”, “Pietas”, “Pathos”, ”Memoria”. Le scene non richiamano una antichità generica, ma rappresentano uno spazio contrassegnato dal mito, tra vari richiami ad Apollo e alle ovidiane Metamorfosi. Lo spettacolo è inizialmente dominato dal bianco. Il colore – con prevalenza del rosso – arriva con l’ingresso di Apollo, che cura le sofferenze dei mortali con l’arte; così per l’effetto benefico del dio il regno di Ebalo, da luogo dimenticato, diventa dopo la morte del figlio Giacinto, un giardino rigoglioso. Il taglio dei costumi ha un’ispirazione più o meno vagamente settecentesca, sono cioè legati a Mozart e Widl, seppur riletti attraverso un filtro contemporaneo.
Tra i componenti del cast – tutti di sicura professionalità – si è segnalato per temperamento e doti vocali l’Apollo del controtenore Raffaele Pe, intenso nell’espressione, nonché impeccabile nel fraseggio e nei passaggi d’agilità (particolarmente suggestiva l’aria “Iam pastor Apollo”). Trascinante la prova del tenore Krystian Adam nei panni di Oebalus, soprattutto in “Ut navis in aequore luxuriante”, tempestosa aria di paragone. Appassionata e vocalmente prestante la Melia offerta dal soprano Barbara Massaro, che si è imposta nell’aria “Laetari, iocari”, oltre che, insieme ad Adam, nel duetto “Natus cadit”. Convincenti ed espressivi anche i controtenori Kangmin Justin Kim (Hyacinthus), in particolare nell’aria “Saepe terrent Numina” e Danilo Pastore (Zephyrus), nell’aria “En! duos conspicis”. Impeccabile la direzione e concertazione di uno specialista del repertorio barocco come Andrea Marchiol – sorretto da una valida Orchestra della Fenice –, che ha trovato la giusta trasparenza nel suono e gli accenti più appropriati alle varie situazioni “affettive”, assicurando altresì una totale corrispondenza tra le voci e l’orchestra. Applausi per tutti al termine dello spettacolo.